A cura di Luca Vergani, Ceo Wavemaker e Ivo Ferrario, Direttore Relazioni Esterne Centromarca
Per sfruttare al meglio la presenza sulle piattaforme social, le aziende devono entrare nell’ordine di idee di diventare content producer, incorporando nelle proprie funzioni strategiche anche quella di brand editor. Ogni piattaforma ha proprie modalità comunicative e quindi una cultura editoriale che guidi il “trattamento” di un contenuto è fondamentale. Analizzando le presenze sulle piattaforme, però, non tutte le aziende sembrano aver appreso le regole di ingaggio.
Ce ne sarebbe bisogno, se consideriamo che i social sono sempre meno social e sempre più media, dove vince chi sa intrattenere e ispirare il pubblico. Le piattaforme si sono “tiktokizzate”, il predominio dei video è evidente, i creator hanno un ruolo trainante rispetto agli influencer. Un altro elemento da considerare è il passaggio dallo scrolling al searching: i social sono usati sempre più frequentemente come motori di ricerca, anche grazie a user generated content vissuti come autentici. Secondo un’indagine redatta da Statista nel 2024, il 75% degli utenti utilizza i social media per cercare informazioni, approfondimenti e ispirazione.
Nel corso di un recente seminario di aggiornamento promosso da Centromarca, Wavemaker ha evidenziato anche altri elementi d’interesse per i manager della comunicazione del marketing. Un primo fattore da considerare è il passaggio dal posting allo shopping: i social impattano i trend del mercato e si stanno progressivamente trasformando in vere e proprie vetrine, sostenuti dall’avvento di nuovi formati “shoppable”. Un’altra evoluzione in atto è quella dall’influencing al content creating: i celebrity influencers vedono progressivamente ridimensionato il loro peso (e la loro credibilità?) come endorser di una marca, mentre cresce quello dei micro-creator che evidentemente riescono ad esprimere contenuti/messaggi più originali, ingaggianti e autentici. Non si può sottovalutare, inoltre, l’evoluzione dalle audiences alle community. L’algoritmo interest-based e piattaforme come TikTok, Twitch e Reddit hanno favorito la nascita di community verticali importantissime per creare dal basso la rilevanza culturale di un fenomeno.
È dunque attivato il momento di scardinare falsi miti ed errori in cui molte aziende incorrono. Quali? Cominciamo col dire che è la piattaforma che deve dettare la narrativa, non l’azienda che la utilizza, questo perché la fruizione e le aspettative dell’utente variano profondamento in funzione del social utilizzato. Un altro fatto di cui tener conto è che i contenuti nativi sono premiati rispetto alle altre forme di advertising. In un contesto di overload comunicativo i contenuti top-down dei brand stanno diventando sempre più… invisibili. È dunque necessario inserirsi nel flusso spontaneo della fruizione social attraverso produzioni native (possibilmente snelle) che sostituiscano i più classici adattamenti da altri touchpoint.
Tra le criticità più frequenti nella relazione tra aziende e creator troviamo la sindrome del controllo. Spesso il marketing vuole dettare le regole: per esempio spinge affinché il partner ripeta più volte il nome del prodotto, oppure che la confezione sia inquadrata molteplici volte in un video, o che aspetti che definiscono il marchio di fabbrica del creator siano messi in secondo piano… Si tratta di richieste che finiscono inevitabilmente per snaturare il linguaggio del partner, penalizzando quella freschezza, quell’originalità e quell’autenticità su cui si fonda il successo della sua relazione con la comunità di riferimento. Un errore da non commettere se consideriamo che per il 61% degli utenti l’autenticità è il top driver di engagement dei contenuti dei creator quando collaborano con un’azienda. Per questo sui social si può anche non essere seri: il 91% degli italiani preferirebbe che i brand utilizzassero più humor, uno strumento potentissimo di efficacia creativa. Insomma: è il momento delle marche coraggiose, disposte a prendersi in giro, ad essere divertenti e autoironiche. A dare spazio a quel pensiero laterale, molto evocato nelle scuole di management, che purtroppo spesso fatica a tradursi in fatti concreti.