L'Opinione

Centromarca - associazione italiana dell'industria di marca

Raffaele Reinerio, 13/10/2025

L'heritage è il DNA di un'azienda: come usarlo efficacemente nella moderna strategia di marca


A cura di Raffaele Reinerio, Board member & Client director Promemoria

C’è un’immagine che perseguita le nostre imprese, soprattutto quelle che hanno scritto la storia del Paese. È l’immagine della cantina polverosa, del capannone dimenticato dove riposano vecchi macchinari, prototipi audaci, faldoni di brevetti e lettere ingiallite del fondatore. Un tesoro sepolto sotto la fretta del presente, sotto la pressione del fatturato trimestrale, sotto l’ansia di inseguire l’ultimo trend digitale. Lo chiamiamo “heritage” – con un termine inglese, quasi a prendere le distanze – ma stiamo parlando della cosa più italiana che esista: la nostra storia. E spesso la trattiamo come un album di famiglia da sfogliare con nostalgia durante gli anniversari. Un errore. Anzi, un clamoroso errore strategico.

Quel patrimonio non è un peso morto, un cimelio da museo. È un giacimento di intelligenza, di visione e di audacia; di errori da non ripetere e di successi da cui imparare. È il DNA dell’azienda, il codice genetico che la rende unica e inimitabile in un mercato globale dove tutto, dalle strategie di marketing ai prodotti, tende a somigliarsi pericolosamente. Integrare l’heritage nella moderna strategia di marca non è un’operazione nostalgica. È dotarsi di strumenti per affrontare il futuro.

Ma come si trasforma la polvere in oro? Il punto di partenza è un cambio di sguardo. L’archivio non è un cimitero di carte, ma il cuore pulsante dell’identità aziendale. Il primo passo è quasi archeologico: lo scavo. Mappare e censire sistematicamente tutto ciò che l’azienda ha prodotto. Non solo le pubblicità d’epoca. Ma i brevetti, la corrispondenza, i diari di laboratorio, le testimonianze di chi c’era. Ogni documento è un tassello che racconta non solo cosa l’azienda ha fatto, ma perché e come. È qui che il passato diventa una bussola per la Ricerca e Sviluppo, che può analizzare i successi per evolverli e, soprattutto, evitare di ripetere errori già commessi, risparmiando tempo e risorse preziose.

Una volta portato alla luce, questo tesoro va organizzato. Un archivio disordinato è inutile. Serve un metodo, una grammatica che renda quel patrimonio consultabile, accessibile, vivo. La digitalizzazione è lo strumento, non il fine. Il fine è creare una piattaforma di conoscenza condivisa, un’intelligenza collettiva a disposizione di tutti. Immaginate un giovane manager al suo primo giorno. Il suo onboarding non sarà più solo un corso sui prodotti. Sarà un viaggio nella storia dell’azienda. Potrà vedere il prototipo scartato che ha ispirato un’innovazione dieci anni dopo. Potrà leggere la lettera in cui il fondatore spiegava perché la qualità non era negoziabile.

È questo il punto cruciale. L’heritage, gestito in modo strategico, diventa il più potente strumento di coesione interna. Crea conoscenza e consapevolezza. Fa capire a chi lavora oggi che non è un numero in un foglio Excel, ma l’ultimo anello di una catena di ingegno e di fatica. Certo, i risultati della trimestrale sono vitali, nessuno lo nega. Ma la vera crescita, quella solida e duratura, si costruisce nel tempo. L’heritage lavora sul lungo termine, ma produce effetti anche nel breve: un brevetto dimenticato può ispirare una nuova linea di prodotto, una campagna storica può essere la base per un’operazione di marketing virale di successo. Genera un senso di appartenenza che nessun bonus economico potrà mai comprare.

Questa autenticità diventa poi una potentissima leva verso l’esterno. In un’epoca di consumatori scettici, poter raccontare una storia vera, documentata, è un vantaggio competitivo enorme. Quel legame, quel bonding che le aziende italiane sono state maestre nel costruire con i consumatori, è un capitale di fiducia da non disperdere. Oggi questo legame deve evolvere, dialogare con linguaggi e strumenti nuovi, dal digitale agli eventi immersivi. Ma deve rimanere fedele a quella storia, a quei valori fondanti. Altrimenti, il filo si spezza e quel capitale umano, costruito in decenni di fiducia, si dissolve. La legacy non è qualcosa che si costruisce con una campagna. La si può raccontare solo se prima la si è capita, ordinata e interiorizzata.

Pensiamo alle grandi imprese del largo consumo, quelle che da decenni sono parte della vita quotidiana degli italiani. La loro forza non sta solo nella qualità del prodotto. Sta in quel legame di fiducia sedimentato negli anni. Gestire in modo attivo l’heritage significa trasformare quel capitale affettivo in un asset strategico. I valori non vengono più “comunicati”, ma dimostrati attraverso gli esempi che hanno plasmato l’azienda. Non si dice “siamo innovativi”, si mostra il brevetto del 1952. Non si dice “mettiamo il cliente al centro”, si fa leggere la testimonianza di un venditore degli anni Sessanta.

L’alternativa è l’oblio. E un’azienda che dimentica il proprio passato è un’azienda senza futuro. Sarà sempre in balia del mercato, costretta a inseguire, incapace di guidare. Perché per sapere dove andare, bisogna prima sapere da dove si viene. E quella cantina polverosa non è un deposito di anticaglie. È la nostra rampa di lancio.

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