Il tasso di disoccupazione generale al 12,6% (dato di aprile 2014), il potere d’acquisto che resta a livelli molto bassi, la distribuzione ineguale della ricchezza secondo cui nel 2012 il 10% delle famiglie possedeva il 47% del patrimonio (nel 2010 ne possedeva il 46%), testimoniano le difficoltà di un ampio segmento della popolazione, che si ripercuotono inevitabilmente sui consumi. Se è vero che alcuni altri dati, come la variazione tendenziale dell’inflazione, il clima di fiducia dei consumatori e la produzione industriale, fanno intravedere uno spiraglio di luce, è altrettanto vero che non si sono ancora concretizzati in ripresa dell’occupazione e del benessere.
In tale contesto generale non può che prevalere un vissuto ‘depressivo’: dominanti le sensazioni di sfiducia e preoccupazione. La dimensione del consumatore – ombattuto tra l’ideale di un consumo etico e la necessità di contrarre i costi – e del lavoratore – diviso tra la difesa del lavoro regolamentato e la necessità di accettare qualsiasi forma contrattuale – schiacciano quella del cittadino, ossia l‘istanza teoricamente prioritaria, normativa ed etica, ma concretamente più debole, minando spesso la coerenza dell’individuo.
Nonostante queste difficoltà congiunturali, l’industria manifatturiera dei beni di consumo è considerata dalle persone intervistate nell’ambito di una ricerca, realizzata da Ipsos per Ibc, un asset strategico della nostra economia, un ambito dal quale risulta difficile prescindere e un fiore all’occhiello delle esportazioni nazionali. In particolare sono l’alimentare e il tessile ad essere percepiti come settori chiave. Viene inoltre riconosciuta loro una leadership a livello mondiale, con una storia e un know-how speciali, difficilmente paragonabili a quelli di altri Paesi. Tuttavia emerge una criticità importante per il comparto, che sembra aver perso lo slancio passato, risultando meno attrattivo e aspirazionale di altri e quindi in difficoltà nell’attirare talenti e investimenti. A differenza dell’ICT e del settore delle energie rinnovabili, non viene percepito in crescita.
Quando si approfondisce il portato di immagine dell’industria dei beni di consumo emerge una sostanziale positività, con alcuni tratti di idealizzazione. Gli italiani 18-65enni rimarcano soprattutto l’artigianalità e la qualità delle produzioni, il rispetto delle norme igieniche e la sicurezza, la creatività e il design. Mentre tra i limiti si evidenziano il prezzo alto e spesso sostenibile per pochi, la scarsa assistenza post vendita, la mancanza di formazione e investimenti che generino innovazione (specie di processo), il mancato ricambio generazionale alla guida di molte imprese, infine alcuni ostacoli più strutturali quali la rigidità del mercato del lavoro e i costi alti per tasse, burocrazia, energia e materie prime. L’indice di consenso per l’industria dei beni di consumo – costruito da Ipsos sulla base di molteplici domande del questionario – conferma che tra gli italiani non esistono negatività o chiusure insormontabili per tale comparto: all’11% di estimatori si sommano il 61% di positivi, il 15% di ambivalenti e solo il 13% di critici.
In una dimensione prospettica esso può rappresentare una risorsa per il Paese e un possibile antidoto alla crisi, in termini di investimento sul territorio e sulle nostre risorse, giocando quindi un ruolo sociale oltre che economico. Secondo gli italiani il rinnovamento deve basarsi sulla sicurezza dell’origine dei prodotti e sulla garanzia del “Made in Italy”, sulla crescita della qualità delle materie prime, oltreché sull’innovazione tecnologica di prodotti e metodi produttivi. Senza tali fattori è difficile pensare di essere competitivi in futuro.
Nando Pagnoncelli, CEO Ipsos e Fabio Era, Senior researcher Ipsos