Un recente servizio pubblicato da RetailWatch, titolato “La GD è pronta a portare i libri in tribunale?”, ci offre lo spunto per entrare nel dibattito sui diversi margini che contraddistinguono le attività dell’industria del largo consumo e della distribuzione moderna. Nel farlo apporteremo elementi che crediamo utili per evidenziare oggettive differenze tra i business considerati. Da ciò derivano marginalità di entità diverse senza che questo debba apparire sorprendente. E sosterremo questo punto di vista con dati inediti, raccolti attraverso un’indagine annuale affidata a Deloitte: l’esame dei bilanci di 80 aziende distributive italiane (con un fatturato complessivo 2012 di 61 milardi di euro) e di 10 distributori tra i più rilevanti d’Europa (Carrefour, Auchan, Delhaize, Metro, Rewe, Mercadona, Casino, Safeway, Ahold, Tesco) per un fatturato complessivo di 461 miliardi di euro.Cominciamo dalla dinamica dei prezzi. Nel servizio, in sostanza, si evidenzia che il costo delle materie prime ha avuto una forte accelerazione ed è stato trasferito dall’industria a valle, ma la GD non ha potuto aumentare i prezzi nella stessa misura per mantenere competitiva la sua offerta. Ne consegue il calo della sua marginalità. Tutto questo è documentato da Retail Watch attraverso i dati Eurostat aggiornati al primo semestre 2013 (2005=100), da cui si evincono un indice dei prezzi industriali pari a 126,9 e uno dei prezzi al dettaglio pari a 120,3. Ma attenzione: se raffrontiamo il dato nazionale con quello europeo (tabella 1), scopriamo che la dinamica dell’industria italiana è in linea con quella delle altre nazioni, nonostante operi in un Sistema Paese contraddistinto da costi base notoriamente più elevati. Siamo dunque in presenza di uno sforzo straordinario di efficienza operativa compiuto dall’industria, che in condizioni ambientali difficili (costi energetici, del lavoro, ecc… più elevati) in questi anni ha saputo riorganizzarsi per mantenere il più possibile sotto controllo il suo conto economico. Non a caso l’Osservatorio Microeconomico Centromarcadocumenta questo sforzo con una riduzione (1% l’anno nell’ultimo quinquennio) dell’incidenza dei costi operativi sul fatturato netto.
Passiamo alla distribuzione. Il confronto dell’ indice dei prezzi italiano ed europeo mostra chiaramente che i retailer nazionali stanno aumentando i prezzi in misura minore rispetto ai colleghi delle altre nazioni. Ma è il caso di chiedersi in che misura su questa scelta influisca l’esigenza di mantenere i volumi e quanto la possibilità di sottrarre quote di mercato alla concorrenza in un contesto di fortissimo pressing sul prezzo e di mercati stagnanti. Certo il travaso di quote c’è stato, ma i volumi non sono cresciuti e il valore delle categorie si è ridotto. Va sottolineato, inoltre, che in questi anni il margine commerciale della Gdo (differenza tra ricavi e costo di acquisto dei prodotti venduti) è rimasto costante tra 25.3% e 25.6% (tabella 2). Questa evidenza mette in dubbio la tesi riportata nel servizio secondo cui l’aumento dei prezzi dei beni venduti da IDM a GD sarebbe stato stato interamente assorbito dalla GD.
La tenuta del Margine Commerciale della Gdo è stata resa possibile anche dalla grande crescita della contribuzione proveniente dall’industria (tabella 3). Ne fa cenno l’Agcm nella sua Indagine Conoscitiva sulla GD, in cui sottolinea che “i flussi di contribuzione incassati dalle catene possono essere da queste più facilmente allocati nell’acquisizione “strutturale” di quote di mercato (crescita esterna, o apertura di nuovi punti vendita), piuttosto che su un virtuoso confronto con i concorrenti su qualità e prezzi dei prodotti”.
Passando all’analisi della redditività operativa (EBIT/Fatturato) si nota (tabella 2) che il campione GD nazionale annulla completamente il vantaggio sul margine commerciale attestandosi su una redditività operativa di 2 punti percentuali più bassa rispetto al campione GD internazionale. Questo gap conferma l’inefficienza operativa del sistema distributivo italiano, in parte dovuta ai problemi strutturali cui abbiamo fatto cenno sofferti anche dall’industria (costo energia, trasporti, lavoro…) ed in parte imputabile ad inefficienze strutturali, di processo e organizzative presenti nella moderna distribuzione (che peraltro numerosi manager della stessa GD confermano).
E’ importante evidenziare, però, a conferma degli spazi di miglioramento esistenti, che nel retail italiano i best performer, contraddistinti da scelte strategico-gestionali più innovative e da più elevata efficienza operativa, raggiungono EBIT superiori al 7%, più elevati sia di quelli dei concorrenti attivi in Europa sia di quelli espressi dall’industria di marca.
Concludiamo le nostre riflessioni sulla redditività operativa mettendo a fuoco la dinamica del ROI (Ebit diviso capitale investito netto – tabella 4). A differenza delle fonti usate da Retail Watch, che fanno riferimento al ROE, risulta più appropriato questo indice, come noto, per misurare la capacità reddituale della gestione caratteristica di un’azienda. Il ROE, infatti, risulta influenzato da componenti straordinarie (oneri o proventi), da componenti finanziarie e da componenti di natura fiscale. E’ dunque meno idoneo a valutare le perfomance gestionali delle imprese.
I dati evidenziano che, pur partendo da livelli diversi, tra il 2008 e il 2012, la perdita in termini di ROI subita dalla Gdo italiana è dell’1.8%; decisamente più contenuta di quella registrata a livello internazionale (-2,8%) e dall’IDM (-4%).
Di fronte a questi numeri è sorprendente che ci si focalizzi ancora sul confronto tra le redditività dei due comparti e non sulle azioni che industria e distribuzione dovrebbero promuovere congiuntamente per contrastare l’erosione di redditività della intera filiera, difendere il valore delle categorie e ridare attrattività all’offerta dei beni di consumo. Le possibili linee di azione collaborative sono note e sono sul tappeto da ormai troppi anni…
Sulla base di queste valutazioni non crediamo, come titola provocatoriamente Retail Watch, che la GD porterà i libri in tribunale. Infatti si giunge a tanto solo quando si registrano perdite rilevanti nel proprio conto economico, oltre che un patrimonio netto negativo con indebitamento netto in aumento e in un contesto aziendale in cui i soci non sono più disposti a intervenire con capitale fresco. Condizioni che, in linea generale, non riscontriamo nel panorama italiano.
Roberto Bucaneve, Direttore del Centro Studi Centromarca