Negli ultimi mesi abbiamo tutti fatto esperienza di cosa significhi misurarsi con la realtà e la dimensione della “infodemia”. Questo termine compare per la prima volta nel 2003 in un articolo pubblicato sul Washington Post da David Rothkopf (politologo e giornalista americano), ma successivamente viene elevato a paradigma semantico dall’Organizzazione mondiale della Sanità per esprimere in senso connotativo il significato della circolazione eccessiva di informazioni contradditorie, spesso non verificabili e non verificate. Informazioni che rendono difficile l’orientamento della collettività rispetto ad una determinata materia, specie quando la paura scivola in direzione dell’angoscia e del panico diffuso.
Il ruolo dei media, indipendentemente dai linguaggi prodotti, va interpretato partendo dalla doppia consapevolezza che le scienze sono strettamente legate alle nostre culture e alle nostre forme di comunicazione, peraltro sempre più inclini alla dinamica del relativismo, non foss’altro come conseguenza del continuo allargamento della produzione e della ricezione dei contenuti. Non dimentichiamoci che la scienza è intrinsecamente comunicativa poiché contiene al suo interno l’esigenza di una piena legittimazione attraverso esperienze di condivisione degli esiti dell’attività di ricerca. Il discorso varia a seconda che si ricorra ad una comunicazione orizzontale (fra soggetti assimilabili per competenza ed interesse, ma anche tra soggetti assimilabili per incompetenza) o ad una comunicazione di tipo verticale (dallo scienziato al pubblico, in pratica dall’alto al basso e per il tramite della mediazione dei mezzi di comunicazione ed informazione).
La sfida è doppia. Da un lato si tratta di “alfabetizzare scientificamente” i media, dall’altro di “alfabetizzare mediaticamente” la scienza per trasformare, come dice il sociologo Bruno Latour, i “fatti duri” in “fatti morbidi” e quindi accessibili ai più, se non a tutti. È noto che nel caso della comunicazione scientifica esiste un doppio problema di qualità e di quantità delle informazioni.
In relazione a questa seconda opzione il problema è soprattutto quello di individuare le modalità migliori per contrastare la formazione e la diffusione di quelle a rischio. L’oscillazione da considerare è, perciò, quella tra “informazioni” e informazione”, parola da intendere in quest’ultimo caso come processo e come sistema in grado di recuperare l’interposizione simbolico-culturale di organizzazioni professionalizzate.
È la media logic a condizionare il confezionamento dei contenuti scientifici, contestualmente alla consapevolezza che siamo in tanti a parlare a tutti e a ciascuno e per giunta su tutto o quasi tutto. Dietro l’angolo ci sono distorsioni che non sono ricollegabili quasi automaticamente alle fake news. Questo va detto con chiarezza e in premessa di ogni possibile ragionamento sul tema.
I media raccolgono spesso opinioni, ma le opinioni in quanto tali non rappresentano di certo la verità assoluta. E, comunque, bisogna saper bilanciare il peso anche delle opinioni, oltre che delle notizie. La vicenda Covid-19 docet. Il giornalismo, colpevolmente sia ben chiaro, cancella talvolta dalla propria attività quotidiana sfumature e interrogativi.
Elargisce spesso certezze anche quando non dovrebbe farlo. Capita anche che ci si innamori delle idee minoritarie perché esse fanno più notizia e che invece si minimizzino quelle riconducibili alla stragrande maggioranza della comunità scientifica solo perché già note. Vale anche il contrario, naturalmente.
Sempre a fini esemplificativi, è utile ricordare quanto scrivono a tal proposito Cloitre e Shinn che individuano quattro livelli di comunicazione scientifica: il livello intra-specialistico come per esempio un paper pubblicato su una rivista di settore; il livello inter-specialistico come gli articoli pubblicati su “riviste onte”, ad esempio Nature o Science; il livello pedagogico come avviene con i manuali destinati ai discenti; il livello popolare come avviene infine con articoli pubblicati sui quotidiani, con i servizi dei telegiornali e dei giornali radio, con le trasmissioni di approfondimento.
Si tratta di una dinamica che può essere raffigurata anche con la metafora dell’imbuto. Metafora che tuttavia va ripensata, immaginando le incursioni della comunicazione interpersonale nei terreni di gioco propri della comunicazione istituzionale e di massa, soprattutto quando si passa dal livello pedagogico a quello popolare. È quello che sta avvenendo con la comunicazione ai tempi del coronavirus.
Vanno messe in evidenza tre date. Nel 2013 il World Economic Forum ha inserito la disinformazione tra i rischi globali del pianeta. Nel 2016 l’Oxford Dictionary ha stabilito che la parola chiave dovesse essere post-truth. Nel 2017 il Consiglio d’Europa ha elaborato infine un rapporto intitolato Information disorder. In questo rapporto si prevedono sostanzialmente due dimensioni applicative.
La prima è quella della disinformation, ovvero della volontà di costruire notizie false per orientare comportamenti collettivi dopo aver modificato idee e opinioni individuali. La seconda è la misinformation, ovvero la diffusione involontaria di notizie false che si propagano in modo virale, indipendentemente dall’azione specifica del produttore dei contenuti. È evidente che il discrimine tra la prima e la seconda tipologia risieda nella intenzionalità o meno dell’agire comunicativo, quando e se esso è effettivamente finalizzato alla proposizione nella sfera pubblica mediata di elementi in grado di alterare la dinamica democratica o il funzionamento dei mercati.
Attenzione, però, perché la non intenzionalità, almeno nella produzione dell’effetto finale di manipolazione o di parziale modificazione della realtà rappresentata e rappresentabile, è anche la chiave per leggere anche la distorsione involontaria nei processi di newsmaking da parte dei newsmedia mainstream. Distorsione che si verifica in ordine alla raccolta delle informazioni, ai valori e ai criteri di selezione del materiale notiziabile, alle modalità di gerarchizzazione e di trattamento delle notizie, alle logiche di tematizzazione attraverso le quali si decontestualizzano e si ricontestualizzano gli accadimenti che potrebbero essere trasformati dai newsmaker in veri e propri contenuti editoriale. Nella letteratura scientifica una possibile risposta a questo problema è stata individuata nell’innalzamento del livello di competenza degli attori dell’intero ecosistema mediale.
Fake news, hate speech e deepfake sono un effetto collaterale dell’orizzontalizzazione dei processi comunicativi, della prosumerizzazione, della metamorfosi dell’intero sistema che ormai si regge su un ruolo interattivo e co-creativo nella generazione e diffusione dei contenuti da parte degli utenti del web 2.0. Il risultato più evidente di tutto quanto qui si sta sostenendo, anche se in linea generale, è che (a maggior ragione davanti alle sfide della società pandemica) siamo chiamati a governare non solo la dinamica polarizzante “verità-falsità”, ma anche quelle più subdole “verità-verosimiglianza”, “reale-realistico”, “fatti-fatti estesi”. Si inserisce qui il tema del rapporto esistente tra la percezione o la dispercezione da un lato e l’informazione, la disinformazione, la malinformazione e la misinformazione dall’altro. Un equilibrio difficile da ricercare e governare, che spesso ha comportato l’adozione da parte dei newsmedia di un codice pedagogico e paternalistico. Prova ne è l’uso nella comunicazione istituzionale di un’intonazione prescrittiva con il ricorso a divieti e a ferree raccomandazioni su ambiti di stretta pertinenza della comportamentalità individuale. Un risvolto su cui riflettere.
L’autore è giornalista, caporedattore del Tg1 Rai e docente all’Università LUISS