Lo scambio Iva – Imposte Dirette non aiuta l’economia
Nel corso degli ultimi anni nel dibattito di politica economica si è affermata con rilievo crescente l’ipotesi di un cambiamento della struttura della fiscalità secondo la logica del passaggio della tassazione “dalle persone alle cose”, ovvero modificando la tassazione attraverso un aumento delle aliquote dell’Iva finalizzato alla riduzione del “cuneo fiscale”, quest’ultimo declinato in diverso modo a seconda delle proposte (meno Irap, meno Ire, e in qualche caso meno contributi sociali sul lavoro). In altre proposte lo “scambio” avviene a favore di una riduzione delle imposte sui profitti. La tesi sostenuta è che una riforma fiscale di questo genere aumenta il tasso di crescita dell’economia.
Tale tesi è stata proposta con frequenza, tanto che oramai la sua validità è assunta nel dibattito corrente. Eppure su questi temi le posizioni sono lungi dal convergere. Già dal punto di vista intuitivo si comprende come non sia scontato che da un semplice cambiamento della struttura della fiscalità possano derivare effetti sulla crescita: difatti, all’impatto positivo sui redditi e sulla domanda legato a un’imposta che si riduce se ne contrappone un altro, di segno opposto, dovuto all’altra imposta che aumenta.
L’effetto complessivo sulla domanda interna e sull’offerta di fattori produttivi dovrebbe quindi essere pressoché nullo.
Effetti incerti anche sulla crescita
L’idea di base con cui viene giustificato questo tipo di riforma fiscale è quella della “svalutazione fiscale”: con ciò si intende il fatto che la tassazione viene spostata dal luogo in cui i beni vengono prodotti verso il luogo in cui questi vengono acquistati.
In tal modo la tassazione che aumenta (l’Iva) coinvolge i beni prodotti solo se sono venduti all’interno del paese mentre, viceversa, non grava sulla quota dei prodotti esportati; inoltre essa coinvolge i beni importati. D’altra parte la riduzione del cuneo fiscale può favorire la riduzione del costo del lavoro aumentando la competitività delle esportazioni.
A tale approccio si obietta innanzitutto il fatto che esso non tiene conto degli effetti di retroazione che possono derivare dalle variazioni dei prezzi relativi indotte dal cambiamento nella tassazione.
Ad esempio, poniamo il caso di una riduzione degli oneri sociali o dell’Irap finanziata con aumento dell’Iva. In questo caso, la maggiore Iva farà aumentare i prezzi interni riducendo il potere d’acquisto delle retribuzioni. Questo in condizioni normali dà luogo a incrementi salariali che possono pesare sull’andamento della competitività riducendo l’effetto della riduzione delle componenti del costo del lavoro diverse dal salario. Da un punto di vista teorico, quindi, guadagni di competitività significativi possono essere conseguiti a condizione che non vi sia alcuna reazione salariale rispetto all’aumento dei prezzi indotto dall’Iva. Una tale ipotesi può essere quindi assunta, ma solo per un periodo breve e in condizioni straordinarie. Viceversa, assumendo comportamenti normali, la riduzione del costo del lavoro è di entità irrisoria, pari alla sola differenza fra la riduzione degli oneri sociali e l’aumento dei salari. Nell’ipotesi di un recupero pieno della maggiore Iva da parte dei salari, si può anche verificare il caso di un aggravio del costo del lavoro a regime per le imprese[1].
Per evitare questo effetto sarebbe preferibile finanziare con l’aumento dell’Iva una riduzione delle aliquote Ire, soprattutto sui redditi medio-bassi che sono i più colpiti dalla maggiore Iva. In tal caso però viene meno l’effetto di riduzione del costo del lavoro che invece caratterizza la riduzione degli oneri sociali. Si perde quindi l’obiettivo di aumentare la competitività, mentre l’impatto positivo sull’offerta di lavoro legato ai maggiori salari è comunque modesto visto che parte dell’aumento dei salari netti è compensato dall’aumento dell’Iva.
La materia, come si osserva, è complessa, e le valutazioni sugli esiti di una riforma fiscale di questo genere variano molto a seconda delle ipotesi adottate. Anche le analisi empiriche non pervengono a valutazioni di carattere conclusivo[2].Da un canto l’effetto sulla competitività è modesto e dall’altro l’effetto espansivo sulla crescita che deriva dall’eventuale aumento delle esportazioni può essere neutralizzato dal fatto che l’aumento dei prezzi interni frena la crescita della domanda interna, e dei consumi in particolare.
Effetti redistributivi fra settori
Nonostante gli effetti in aggregato non siano univoci, uno scambio fiscale come quello descritto ha comunque effetti di carattere redistributivo che vanno tenuti in considerazione.
Il primo effetto è di carattere settoriale. Se è vero che lo scambio fiscale fra maggiore Iva e minori imposte sul lavoro avvantaggia tendenzialmente l’export a scapito della domanda interna, è allora anche vero che i settore esportatori traggono un beneficio netto da una manovra di questo genere, mentre ne vengono penalizzati quelli maggiormente legati all’andamento della domanda interna.
Naturalmente, una politica di questo genere può essere anche adottata da un Governo, al fine di modificare la struttura produttiva del paese. Risulterebbe però quanto meno singolare se questo tipo di politica venisse promossa in una fase come quella attuale in la domanda interna italiana ha subito una ampia contrazione, di quasi il 10 per cento rispetto ai livelli di inizio 2007, precedenti l’inizio della crisi.
Effetti redistributivi a sfavore dei redditi più deboli
Vi sono poi anche eventuali effetti di carattere redistributivo fra le diverse fasce di reddito. Difatti, di per sé l’aumento dell’Iva tende ad incidere in misura maggiore sui ceti medio-bassi, caratterizzati da una propensione al consumo più elevata. La distribuzione del gettito Iva ha difatti carattere regressivo, ovvero chi guadagna di meno tende a pagare in proporzione al suo reddito più Iva di chi guadagna di più.D’altra parte, la progressività del sistema fiscale è attuata principalmente attraverso l’andamento crescente delle aliquote dell’Ire.
Per neutralizzare questo aspetto occorrerebbe allora concentrare la riduzione del cuneo andando a ridurre l’Ire per i redditi più bassi, e questo comunque non risolverebbe il problema degli incapienti, cioè di coloro che hanno redditi così bassi da non pagare Ire e che quindi subirebbero gli effetti del rincaro Iva senza avvantaggiarsi dello sgravio Ire. In altre ipotesi la redistribuzione del reddito peggiora, e in misura massima nel caso di un aumento Iva che va a finanziare la riduzione dell’Ires.
Effetti scarsi sull’evasione fiscale
Un altro argomento sostenuto per favorire lo scambio Iva – imposte dirette è rappresentato dal fatto che la distribuzione del gettito Iva, riflettendo quella dei consumi individuali, tende a trasferire gettito anche in capo a soggetti che non vengono colpiti dalle dirette in quanto nella condizione di evaderne una quota.
Anche questa argomentazione è semplicistica.
L’Iva è come noto la tipica imposta oggetto di “scambio fiscale” fra consumatore e produttore nel caso di evasione; all’aumentare dell’Iva risulta incentivato un tale scambio e dunque è possibile una riduzione della tax compliance da parte dei produttori. Peraltro, le stime disponibili suggeriscono che l’Iva è fra le imposte evase in misura maggiore.
Conclusioni
Una maggior crescita in economia non può essere quindi conseguita attraverso semplici spostamenti della fiscalità. Richiede modifiche ben più sostanziali del sistema produttivo, induce a spostare l’enfasi delle politiche economiche in altra direzione: dal contenimento della spesa pubblica alla spending review, alle liberalizzazioni dei settori non sottoposti alla concorrenza.
Sulla scorta di queste considerazioni va scongiurato l’ aumento di un punto percentuale dell’aliquota Iva del 21%, programmato nel luglio 2013, già inserito nella Legge di Stabilità varata dal Governo Monti. Secondo le stime elaborate da Ref Ricerche e Centro Studi Centromarca l’innalzamento dal 21% al 22%, determinerebbe una contrazione dei consumi delle famiglie, accompagnata da una riduzione del pil del -0,1%, corrispondente a circa 2 miliardi di euro. Tutto ciò si tradurrebbe in un calo del gettito atteso per le casse dello Stato, stimato in quasi 1 miliardo di euro.
Sono altresì fuori luogo ipotesi di interventi sulle aliquote iva del 4 % e del 10% L’intervento avrebbe effetti negativi pesanti su inflazione, domanda, prodotto interno lordo e gettito fiscale. E si sommerebbe agli effetti negativi sul potere d’acquisto delle famiglie derivanti da un’imposizione fiscale da tutti considerata ormai insostenibile.
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[1] Senza complicare troppo l’analisi, va ricordato che parte dell’aumento dell’Iva va a ridurre il potere d’acquisto di redditi diversi dal lavoro. Anche questo può però traslarsi sulle domande salariali nella misura in cui la riduzione del potere d’acquisto delle pensioni modifica l’aspettativa sul livello di una componente differita del reddito attuale, soprattutto in un sistema pensionistico contributivo.
[2] Fra le analisi che ridimensionano l’impatto sulla crescita dell’ipotesi di una “svalutazione fiscale” si segnala: Lipnka A. e von Thadden L. (2009) Monetary and fiscal policy aspect of indirect tax changes in a monetay union. European central bank Working paper n 1097. Nella rassegna contenuta in FMI (2011) Fiscal monitor si evidenziano invece effetti positivi sulla competitività e la crescita, ma per lo più circoscritti al breve periodo, e destinati ad essere riassorbiti in alcuni anni.
Un recente studio sempre del Fondo monetario internazionale, Italay; selected issues (2013) indica che un aumento dell’Iva che finanzia una riduzione dei contributi sociali impatta sul Pil con una elasticità dello 0.5 per cento in dieci anni. Ovvero, un aumento dell’iva con un gettito di 10 miliardi che finanza una analoga riduzione dei contributi sociali determina un aumento del tasso di crescita del Pil pari allo 0.03%. Sempre secondo la stessa analisi se invece degli oneri sociali si riducono altre imposte, come l’Irap, l’effetto sulla crescita è ancora inferiore.