La marca è oggi al centro di qualunque forma di comunicazione fra il consumatore e il sistema dell’offerta e le grandi marche del largo consumo hanno svolto un ruolo pionieristico nel mostrare a tutti come farlo. Come costruire una relazione, un dialogo e, diciamo oggi, una conversazione con il consumatore e, più in generale, con tutti gli stakeholder rilevanti di un bene, un servizio, un’idea e persino un ideale. Le grandi marche del largo consumo sono state le prime a sperimentare il passaggio da una semplice identificazione di un nuovo prodotto con un nome proprio – al loro inizio il dato fondativo delle marche – alla contemporanea fornitura di una garanzia di qualità e, via via, alla connotazione di una data offerta con valori e comportamenti. Le marche-prodotto di un tempo sono così diventate parte di una più complessa architettura che articola la relazione fra impresa e mondo esterno, per rendere possibile una comunicazione complessa, da quella che oggi chiamiamo corporate, che trasferisce la missione aziendale, a quella che si focalizza su un prodotto.
E’ un percorso che richiede non solo valutazioni specifiche, relative a un singolo bene o alla singola impresa, ma di sistema. Il valore delle marche, come insieme di segnali che connotano l’offerta, va al di là di quello delle sue componenti. Rendendo riconoscibili i prodotti nel tempo e nelle spazio, ci permettono di esplorare ciò che ci viene proposto in modo più efficiente, riducendo i nostri costi di ricerca; identificando chi produce e le sue promesse, costituiscono un’implicita garanzia e un impegno che ci fa risparmiare risorse per riassicurarci in altro modo, attraverso un faticoso assemblaggio di informazione; grazie a valori, comportamenti e stili, ci permettono di connotare il consumo e stimolare le nostre proiezioni verso altri individui e gruppi sociali.
La marca è diventata così un fenomeno sempre più complesso, non più solo strumento di un piccolo numero di grandi imprese, ma di quasi tutte le imprese, a cui fanno eccezione i sempre più ristretti ambiti produttivi che si possono ancora definire con la parola commodity. Di questo fenomeno fa parte anche la marca commerciale, di cui si sente sempre più spesso parlare nell’attuale congiuntura italiana. Nel largo consumo, la marca commerciale è arrivata in Italia con molto ritardo e ha oggi una diffusione ancora limitata, inferiore a quella che ha in tutti i paesi commercialmente evoluti inclusi gli Stati Uniti. Ed è forse anche per questo, per la sua relativa novità, oltre che per la convenienza che propone in un momento economicamente difficile, che di essa si parla così tanto, stimolando a domandarsi quale sia il suo ruolo nel sistema di segnali che le marche, tutte, contribuiscono a mandare al consumatore.Contrariamente a quella industriale, la marca commerciale nasce da subito identificata non con singoli beni, ma con un sistema di offerta, quello dell’insegna chela propone.
E’ quindi una marca con una forte connotazione corporate, trasversale e riferita all’assortimento, piuttosto che verticale e riferita a uno o pochi beni. E’ la sua principale differenza con la marche industriali che invece hanno una maggiore focalizzazione, oggi certamente non solo di prodotto, ma comunque ancorata a una categoria o a un bisogno. In una prospettiva di sistema, il rapporto fra marca industriale e commerciale si gioca in questa diversità, che determina il loro ruolo e il senso di ciò che trasferiscono al consumatore.
Nel largo consumo dominano formule di vendita despecializzate, che consentono al cliente di concentrare gli acquisti dei beni di uso quotidiano in un’unica spedizione d’acquisto. E’ un vincolo che rende molto difficile la diffusione di modelli di filiera integrati a partire, secondo i casi, da imprese industriali o commerciali, come è avvenuto, ad esempio, nell’abbigliamento. Nessun produttore e nessun distributore potrebbe credibilmente proporsi come detentore di tutte le competenze necessarie per rispondere ai bisogni che sono soddisfatti da un così elevato ed eterogeneo numero di categorie. Il confronto fra una proposta più connotata dall’insegna e una più connotata da una specializzazione produttiva non si svolge quindi fra punti vendita diversi, come avviene nel caso dell’abbigliamento, appena citato, per le insegne del fast fashion e le griffe del lusso, ma all’interno di un medesimo punto vendita, fianco a fianco sullo stesso scaffale.
E’ così che si chiarisce il diverso ruolo di marca industriale e commerciale. La seconda toglie spazio alla prima là dove il suo valore si è ridotto per mancanza di innovazione, sia funzionale che immateriale, e può essere sostituita dalla garanzia dell’insegna. Ma non può esserlo dove le competenze di prodotto rimangono la premessa per rinnovare l’offerta e arricchire nel tempo i modi di soddisfare un dato bisogno. Nessuna insegna sarebbe in grado di farlo raggiungendo l’eccellenza in tutte le categorie di prodotto che sono rappresentate nei suoi punti vendita. In positivo, la marca commerciale è dunque uno stimolo a quella industriale. Toglie spazi di mercato alla produzione che non è più in grado di raggiungere questa eccellenza, ma non a chi continua a farlo presidiando le competenze di singoli ambiti di offerta. Marca commerciale e industriale sono complementari e si stimolano a vicenda, aggiungendo un ulteriore elemento di concorrenza in un settore, quello del largo consumo, che di stimoli a competere certo non manca e che in questi anni, senza clamori, ha trasferito al consumatore molto valore.
Luca Pellegrini, Professore ordinario di marketing all’Università Iulm di Milano