L'Opinione

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Paolo De Castro, 30/01/2012

A proposito di domanda e offerta dei prodotti agricoli


L’equilibrio dei mercati agricoli rischia di diventare sempre più precario a causa dei cambiamenti di natura strutturale che stanno accompagnando l’evoluzione della domanda alimentare mondiale. Vi proponiamo le riflessioni di Paolo De Castro, Presidente della Commissione Agricoltura del Parlamento Europeo 
Secondo le stime della FAO la popolazione mondiale supererà i nove miliardi di persone nel 2050. Un incremento di circa un terzo rispetto ai 6,9 miliardi che ora abitano il pianeta. Numeri che non rappresentano una sorpresa se si guarda all’evoluzione demografica degli ultimi cento anni. Gli incrementi della popolazione che si prevedono per i prossimi decenni saranno, infatti, inferiori rispetto a quelli del passato. In particolare, l’incremento della popolazione di oltre il 30% prospettato dalla FAO per i prossimi quarant’anni, si attesta ben al di sotto della crescita relativa che ha segnato i quattro decenni appena trascorsi, nei quali la popolazione è più che raddoppiata. Comunque il pianeta sarà abitato da circa 2,5 miliardi di abitanti in più e questo nel giro di qualche decennio: già tra meno di vent’anni la terra avrà già un miliardo in più di abitanti e bocche da sfamare.
I maggiori incrementi avranno luogo nei Paesi in via di sviluppo, mentre la popolazione delle economie ad alto reddito rimarrà pressoché stabile e in alcune aree, in particolare in alcune regioni dell’Europa, si potranno anche registrare degli arretramenti nel numero degli abitanti. Oggi la popolazione mondiale è distribuita per il 50% circa negli insediamenti urbani e per l’altra metà nelle aree rurali. Nel 1950 solo il 28% delle persone viveva nei grandi agglomerati, nel 2050 questa percentuale è destinata a raggiungere il 70%. Diciannove città in più rispetto ad oggi conteranno più di dieci milioni di abitanti e cinque di queste apparterranno all’area asiatica dove la tendenza alla concentrazione metropolitana sarà particolarmente marcata. 
Questo fenomeno inciderà sulla presenza nelle campagne, tanto che la FAO stima attorno al 30% la riduzione della popolazione attiva in agricoltura nei prossimi quarant’anni. Ma contribuirà anche ad orientare le scelte di consumo di ampie quote della popolazione mondiale verso prodotti a maggior contenuto di servizi (a partire dalla trasformazione)  e ad avvicinarle, così, agli stili alimentari delle aree oggi più ricche del pianeta. 
Il contributo più importante all’allineamento delle diete sarà dato dall’espansione della classe media delle aree emergenti, che accompagnerà un incremento della ricchezza pro-capite che continuerà ad essere intenso anche nel prossimo futuro. Il reddito individuale di paesi come India, Brasile e Cina è cresciuto infatti a ritmi sostenuti in questi ultimi anni per rallentare, ma non frenare, solo durante questa lunga fase di recessione economica mondiale. I casi più clamorosi sono quelli di Cina e India che hanno fatto registrare tassi di crescita annuali vicini alla doppia cifra negli anni immediatamente precedenti la recessione e che sono proiettati, secondo il Fondo Monetario Internazionale, a proseguire nel loro trend almeno per i prossimi vent’anni.
Come impatta tutto questo sul rapporto tra domanda e offerta di prodotti agricoli? La FAO sostiene, ormai da qualche tempo, che per venire incontro alla domanda di cibo di una popolazione in aumento e che sarà  più ricca e più urbanizzata, la produzione agricola destinata ad usi alimentari dovrà aumentare del 70% da qui al 2050. Per soddisfare la domanda globale di cibo la produzione annua di cereali dovrà attestarsi intorno a 3 miliardi di tonnellate, circa un terzo in più rispetto ad oggi, quella di soia dovrà aumentare del 140% e quella di carne dovrà raggiungere i 470 milioni di tonnellate, duecento in più di quelle attuali. 

E quanto strategico sia diventato il ruolo della terra lo vediamo anche dal clamore che sta suscitando il fenomeno del land grabbing: non abbiamo dati precisi ma decine di milioni di ettari di terra coltivabile del continente africano sono stati oggetto di transazioni negli ultimi anni. 


 

GLI ALLARMI
L’allarme sugli effetti di questi cambiamenti è scattato in concomitanza con l’impennata dei prezzi delle materie prime agricole sperimentata nel biennio 2007/2008 è si è consolidata come priorità nell’agenda politica internazionale con il nuovo picco delle quotazioni registrato tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011. Così è maturata la consapevolezza che l’equilibrio dei mercati agricoli rischia di diventare sempre più precario a causa dei cambiamenti di natura strutturale che stanno accompagnando l’evoluzione della domanda alimentare mondiale. 

Da questa minaccia nasce il dibattito sulla scarsità di cibo, su come “alimentare il mondo nel 2050”, come recita il titolo di un recente rapporto della FAO, le cui conclusioni sono, al pari di quelle contenute in altri studi, molto chiare ed eloquenti: vincere la sfida della sicurezza alimentare richiede azioni urgenti da intraprendere a livello internazionale. Se la produzione agricola continuerà a crescere al ritmo registrato negli ultimi anni il divario tra domanda e offerta rischia di ampliarsi considerevolmente già nel prossimo futuro, portando all’inevitabile estensione dell’area dell’insicurezza alimentare, che attualmente supera gli 1,2 miliardi di individui e riproponendo all’ordine del giorno, anche per le economie avanzate, il tema della sicurezza degli approvvigionamenti, che sembrava essere stato definitivamente cancellato con la fine della seconda guerra mondiale. 

Secondo molti analisti, questi dati segnalano inequivocabilmente l’esaurirsi della  rivoluzione verde e il raggiungimento di un livello di efficienza difficilmente superabile nel breve-medio periodo. Ma su questo fronte il dibattito è molto acceso e articolato. Possiamo dire che tutti concordano su un fatto: il progresso tecnologico e il suo trasferimento continuano a rappresentare una delle principali, se non la principale, chiave di lettura per affrontare la sfida della sicurezza alimentare.

C’è chi crede che su questo terreno ci sia poco da aspettarsi nell’immediato futuro e chi, all’opposto, sostiene che ricerca, sviluppo e trasferimento dell’innovazione possano rappresentare non solo nel lungo, ma anche nel breve periodo, fattori determinanti per migliorare la capacità produttiva, senza minacciare la sostenibilità ambientale.
 
 
LA SPESA IN RICERCA DECRESCE
Noi che cerchiamo di stare sempre dalla parte degli ottimisti sosteniamo questa seconda prospettiva. Innanzitutto perché crediamo che la rivoluzione verde sia tutt’altro che archiviata. Alcuni dati recentemente prodotti da uno studio commissionato dal Governo Britannico, dal titolo “The Future of Food and Farming: Challenges and choices for global sustainability”, mettono in evidenza come in realtà vi siano ancora importanti spazi di manovra che possono essere sfruttati per estendere ulteriormente i benefici  dei progressi tecnici sino ad oggi realizzati. 
É chiaro che la prospettiva di trasferire i benefici tecnici raggiunti nei contesti sviluppati a quelli che lo sono meno sconta problemi storicamente irrisolti, come la ridotta efficacia dell’attuale sistema di investimenti e degli aiuti allo sviluppo dei paesi poveri e la perenne situazione di conflitto e instabilità politica di alcune grandi aree. Una prospettiva che comunque ci suggerisce come alcuni guadagni di produttività possano essere progressivamente acquisiti in ampie aree del mondo, con risultati importantissimi in termini di lotta alla fame. 
Ma il dato allarmante é che la spesa pubblica dedicata alle attività di ricerca e sviluppo in campo agricolo é in costante calo a livello globale: è rimasta stagnante nei paesi più poveri, mentre per quelli più sviluppati cresce a tassi decisamente inferiori rispetto ai decenni passati. Solo in alcuni paesi emergenti, Cina, Brasile e India in testa, gli investimenti in ricerca e sviluppo pur crescendo con meno intensità rispetto al passato, restano ancora molto importanti. L’agenzia brasiliana dedicata alla ricerca in agricoltura, l’EMBRAPA, è oggi la più grande del mondo con un budget annuale superiore al miliardo di dollari. La Cina negli ultimi dieci anni ha aumentato la spesa dedicata alla ricerca in agricoltura del 10% l’anno, avvicinandosi alla cifra di circa quattro miliardi di dollari nel 2008. Per il quinquennio 2007-2012, Nuova Delhi ha stanziato oltre 2,6 miliardi di dollari per la ricerca nel settore. Gli investimenti cinesi insieme a quelli indiani rappresentano oggi oltre il 70% del totale della spesa pubblica dedicata all’agricoltura nell’intero continente asiatico.

I motivi che hanno scoraggiato la ricerca pubblica in questi ultimi anni vanno ricercati nello scenario di stabilità dei mercati che ci siamo appena lasciati alle spalle.  Il lento ma costante declino dei prezzi delle derrate alimentari, che aveva caratterizzato un’epoca di sovrapproduzione durata cinquant’anni e incoraggiata  dalle politiche a sostegno del settore adottate nei paesi più sviluppati, ha assottigliato, praticamente annullato, le preoccupazioni delle nazioni ricche per la propria sicurezza alimentare.

L’aumento della domanda accompagnato da molteplici fattori (incremento dei rischi climatici, deprezzamento e apprezzamento di alcune valute ecc) ha dato il via all’era della volatilità dei prezzi a cui contribuisce in maniera decisiva il fatto che il mercato ha dimensioni spesso molto ristrette, sia per volumi che per numero di esportatori. La quota della produzione mondiale di alcune derrate agricole dedicata alle esportazioni ci dà l’idea di questa situazione. Solo il 12% del mais e il 18% del grano è destinato ai mercati internazionali, la restante parte rimane all’interno dei paesi produttori. Questo significa che le quantità scambiate sono molto contenute. Quindi anche in caso di modesti shock le ripercussioni sui prezzi possono essere significative e il ritorno all’equilibrio può richiedere tempi lunghi. Con volumi così bassi e concentrati nelle mani di pochi esportatori i mercati diventano precari e piccole variazioni delle quantità esportate o richieste all’importazione, producono sensibili incrementi o diminuzioni dei prezzi.

La mancanza di coordinamento internazionale ha fatto il resto!

Le reazioni dei governi ai picchi dei prezzi sono state finalizzate a stabilizzare il più rapidamente possibile l’offerta interna, attraverso l’adozione di misure protettive (come divieti alle esportazioni o incentivi alle importazioni), al fine di alleviare l’impatto del rialzo dei prezzi sui propri cittadini. Ma queste iniziative hanno purtroppo avuto il solo risultato di esportare l’instabilità, di portarla dall’interno verso l’esterno, amplificando le oscillazioni dei prezzi a livello internazionale e innescando di fatto un circolo vizioso che ha reso i mercati ancora più precari. 

Nel 2007/2008, molti paesi esportatori di cereali hanno vietato o limitato le esportazioni. L’Ucraina ha imposto quantitativi massimi che poi si sono trasformati in divieti assoluti. In Argentina è aumentata la tassazione per i commerci in uscita, come in Russia e Cina, dove ha raggiunto livelli tali da configurarsi come un vero e proprio bando. I maggiori produttori di riso come India, Indonesia e Vietnam hanno, nello stesso periodo, chiuso i flussi verso l’esterno. 
Queste azioni, cosi come gli annunci che le hanno precedute, hanno ovviamente avuto un ruolo importante nel favorire l’incertezza: il panico dei governi ha così spinto nel panico anche i mercati. 
Ma l’esperienza di quel biennio non è stata purtroppo d’insegnamento. Nel 2010 abbiamo assistito ad un nuovo ciclo di misure del tutto scoordinate a livello internazionale. Nell’estate di quell’anno, a seguito dei grandi incendi che hanno colpito la Russia danneggiando i raccolti, Mosca ha vietato le esportazioni di grano, dando impulso all’aumento dei prezzi. L’esempio russo è stato seguito dall’Ucraina, mentre in parallelo molti governi hanno iniziato a sussidiare le importazioni o a ridurne la tassazione. E’ bastato l’annuncio del divieto perché molti importatori, presi dall’ansia, cominciassero a contrattare volumi maggiori rispetto al passato, temendo successivi rialzi. Secondo la FAO i prezzi mondiali del frumento sono saliti tra il 60 e l’80% tra luglio e settembre 2010 a seguito del divieto di esportazione deciso da Mosca. Da eccezione queste dinamiche stanno diventando prassi e molti paesi importatori, che in passato trattavano quantità di materie prime agricole adatte a soddisfare la domanda di pochi mesi, oggi iniziano ad intervenire più massicciamente sui mercati per coprire periodi più lunghi.

La sfida è oggi quella di ripensare le regole e il ruolo delle politiche internazionali sul commercio. Nella consapevolezza che non abbiamo a che fare con un fenomeno transitorio, ma strutturale che ci introduce in una fase storica in cui faremo i conti con prezzi più alti e mercati più volatili. Il documento uscito dal G20 può essere visto come un passo in avanti nella definizione di un’agenda. 

Per la sicurezza alimentare globale, va tuttavia ricordato che ad oggi non ci sono innovazioni nel quadro istituzionale internazionale che ci consentono di poter dire che una eventuale nuova crisi dei prezzi possa essere oggi gestita in maniera diversa dal passato. Nel breve termine è lecito attendersi (lo speriamo) un accordo per la non applicazione di eventuali divieti e restrizioni al cibo acquistato nell’ambito del World Food Programme. Si, avete capito bene: anche gli aiuti umanitari sono stati e sono soggetti alle restrizioni commerciali adottate dai paesi esportatori durante i periodi di crisi.

Tutto sommato, ci sembra ancora troppo poco.

Abbiamo bisogno di agire con urgenza, partendo proprio dalla riorganizzazione delle politiche commerciali, iniziando dalla necessaria riforma delle regole sul commercio internazionale relative alle pratiche limitative delle esportazioni. Occorre ridisegnare la cornice entro la quale relegare e contenere queste misure, associandole solo a casi eccezionali e come opzione alternativa ad altri strumenti di contenimento dell’inflazione interna, come i trasferimenti di derrate a scopo sociale, sui cui torneremo a breve. Bisogna delimitare in modo più chiaro le casistiche e la durata delle eventuali misure restrittive, inquadrandole in un sistema di governo delle emergenze che sia integrato a livello internazionale.
Ma questa è solo parte di un lavoro più ampio che concerne anche il rilancio della missione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO).
 
Paolo De Castro, Presidente Commissione Agricoltura del Parlamento Europeo
 

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