L'Opinione

Centromarca - associazione italiana dell'industria di marca

Ivo Ferrario, 20/01/2016

Apriamo al futuro che bussa alla porta


Tutta la filiera si pone il problema di creare valore, dopo averne bruciato parecchio negli ultimi anni. Intendiamoci: l’esercizio è complesso. Non è facile perseguire l’obiettivo in un contesto di grande discontinuità, contraddistinto dalla crescente richiesta di convenienza e dal progressivo profilarsi di nuove occasioni di destinazione del reddito che penalizza il grocery.Il prezzo, a prima vista, appare l’unica leva su cui agire. Ma le cose stanno veramente così?
Proviamo ad osservare il mercato con lenti diverse. Un esempio? Pensiamo al problema della difesa dei volumi. E’ stato “risolto” ricorrendo a una pressione promozionale esasperata, che ha eroso valore, penalizzato i margini delle aziende e gli investimenti in attività di marketing e comunicazione a monte del punto di vendita. Risultato: le quantità sono state forse difese, ma a pagarne lo scotto è stata l’equity, che ne è uscita indebolita. Non a caso numerose marche si sono trovate nella condizione di dover difendere il posizionamento e la quota di mercato ricorrendo a quegli investimenti in comunicazione e marketing a monte del punto di vendita che prima avevano trascurato.
Uno shock a suo modo utile. Ha infatti ricordato perentoriamente a tutti che non si è grande marca per sempre. Il privilegio di essere al primo posto nelle scelte del consumatore si mantiene alimentando e mantenendo attuali i valori distintivi del proprio brand. Ed evitando di giocare in modo esasperato sulla leva prezzo. Il gioco al ribasso – forse – paga sul breve, ma sul lungo penalizza e apre le porte ai competitor meno disposti al compromesso.
Il discorso vale anche per le insegne. E’ vero: le catene più attente ed evolute hanno saputo capitalizzare sulla crisi e sulla “distrazione” di alcune marche per dare un ruolo a scaffale più rilevante alle loro private label, ma nel complesso anch’esse si sono trovate vittime della guerra dei prezzi, registrando un calo complessivo della marginalità. E non hanno resistito alla tentazione di recuperare agendo su una leva ben nota: l’incremento del potere d’acquisto (leggi: nuove aggregazioni) da cui derivano i consueti aggiustamenti contrattuali. Aggiustamenti che consentono anche ad aziende inefficienti e poco competitive di stare sul mercato in modo parassitario. Anche questo è un modo di bruciare valore, rallentando i meccanismi di ricambio tipici dei mercati efficienti.
Certo non si può fare di tutta l’erba un fascio. Ci sono state industrie di marca – tante – che anche nella tempesta promozionale hanno difeso l’equity. E ci sono stati retailer che si sono impegnati – anche con ingenti investimenti – nella costruzione di missioni e posizionamenti cui il consumatore riconosce oggi un valore distintivo. Ma non possiamo dimenticare che la norma, nella vita quotidiana dei punti di vendita, in questi anni, è stata una feroce lotta sul prezzo e non su altre leve più coerenti con l’esigenza di difendere e creare valore per le categorie e per le imprese. Una lotta che, per altro, ha colpito non solo la filiera italiana del largo consumo, ma anche quelle francese (provocando l’intervento dell’Eliseo e raccogliendo l’attenzione delle più importanti testate giornalistiche per i suoi effetti complessivi sul Paese) ed inglese (dove i pesanti effetti sull’industria alimentare hanno destato preoccupazioni analoghe a quelle d’Oltralpe).
Come se ne esce? Partiamo da un dato condiviso: la contrazione delle vendite per metro quadro spaventa sia l’industria sia la distribuzione, perché insieme al calo dei margini può portare alla riduzione degli investimenti su prodotti e formati. Investimenti che oggi sono fondamentali per non intaccare le quote di mercato e difendere l’appetibilità dell’offerta grocery.
Un ambito su cui lavorare, in direzione della difesa del valore, a parere di molti operatori ed analisti, sarebbe quello della semplificazione delle relazioni. Una riduzione della complessità (contrattuale, ma anche organizzativa e funzionale) che ancora appesantisce le relazioni commerciali avrebbe effetti positivi per tutti. A questa azione, però dovrebbe affiancarsi anche una più mirata gestione degli investimenti delle aziende, se si vuole dare vita a innovazioni di prodotto e di formato distributivo efficaci, significative e profittevoli.
A tutto questo dovrebbe unirsi la consapevolezza del fatto che la costruzione e la difesa del valore sono sì prerogativa delle strategie delle singole aziende, ma non possono prescindere da condizioni ambientali e relazionali diverse da quelle in cui ancora operiamo. Questo implica innovare non solo i prodotti e i formati commerciali, ma le stesse relazioni interne ed esterne alle aziende, le competenze e gli incroci funzionali con l’obiettivo di liberare le migliori energie progettuali che spesso restano imbrigliate nelle procedure aziendali. Un esempio? Non è un caso che industria e distribuzione incontrino ancora grosse difficoltà nell’interfacciarsi per produrre iniziative congiunte e di forte impatto sul consumatore in ambito Csr.
Senza dubbio il contesto richiede una trasformazione di ampia portata. “Impossibile”, dirà qualcuno, poco propenso ad abbandonare logiche ormai logore. Può darsi. Ma attenzione: pochi qualhe tempo fa avrebbero scommesso sull’ingresso di Amazon nel grocery e nel fresco in un mercato complesso come quello italiano. Jeff Bezos però ha fatto reso possibile un fatto considerato dai più altamente improbabile con cui oggi industria e distribuzione devono confrontarsi.
La cosa che appare davvero incredibile, oggi, e che qualcuno possa ancora pensare di difendere le proprie rendite di posizione non aprendo al futuro che bussa alla porta.
 
Ivo Ferrario è Direttore Relazioni Esterne di Centromarca
 

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