A cura di Massimo Maggiore, avvocato Studio Legale emlex.
Sono passati due anni e mezzo dall’entrata in vigore del D.Lgs. 198/21 di attuazione alla Direttiva UE 2019/633 in materia di pratiche commerciali sleali nei rapporti tra imprese nella filiera agricola e alimentare. Se nel frattempo la legge è stata oggetto di un’intensa attività di enforcement da parte dell’ICQRF, la distribuzione moderna ha mantenuto il proprio atteggiamento, coerentemente mostrato sin dall’emanazione della Direttiva, di spinta a un’interpretazione alquanto riduttiva della disciplina, che non pare condivisibile.
Non condivisibile è in particolare quella che a me sembra la volontà di sostanzialmente derubricare la disciplina delle pratiche sleali ad una vicenda tra imprese agricole e acquirenti ai vari livelli della catena, lasciando fuori gran parte dell’industria.
Questo atteggiamento è stato ribadito in occasione di un recente convegno tenutosi a Roma nel mese di maggio, quando autorevoli esponenti del mondo della distribuzione si sono incentrati su interpretazioni del D.Lgs. 198 che, a loro dire, consentirebbero di far rivivere, quale criterio cardine di applicazione, quella che non esito a definire la “camicia di forza normativa” che ha condizionato il sistema della norma precedente – l’art. 62 del D.L. 1/2012. Si tratta del criterio del “significativo squilibrio nei rispettivi rapporti di forza commerciale” tra le parti della relazione. Secondo l’impostazione in questione, in particolare, anche il D.Lgs. 198 presuppone il significativo squilibrio, senza cui la stessa ratio della Direttiva 2019/633 risulterebbe in qualche modo tradita.
Sarebbe interessante soffermarsi sulla genesi del requisito del “significativo squilibrio” nel vigore dell’ormai abrogato art. 62. Si vedrebbe ad esempio come esso non fosse affatto presente nella norma primaria approvata dal Parlamento a marzo del 2012, ma sia stato introdotto soltanto dopo, nella norma secondaria di attuazione (il D.M. 199/2012), così di fatto modificando sostanzialmente (restringendola ben oltre la voluntas legis) la norma primaria.
Il filtro del “significativo squilibrio” ha fatto sì che l’art. 62 non abbia in alcun modo inciso nei rapporti industria alimentare e distribuzione. D’altronde l’art. 62 è stato abrogato e con esso anche il D.M. 199/2012, mentre, al contrario di quanto sostenuto nel menzionato convegno romano, privo di qualsiasi valore di pretesa restaurazione del criterio in questione è a mio avviso il residuo e isolato riferimento al “significativo squilibrio” rimasto nel secondo comma dell’art. 10 quater del d.l. 27/2019 (riferimento che a mio parere si può ritenere anch’esso implicitamente abrogato come tutti gli altri commi di quell’articolo).
Chi scrive è certamente un fautore dei principi dell’autonomia contrattuale in generale. Tuttavia questi principi non possono essere ridotti a mero schermo formale, per giustificare prassi contrattuali che, se considerate nella loro oggettività, non possono trovare alcuna giustificazione razionale dal punto di vista economico e che in sé altro non sono che manifestazione di prassi di mercato consolidatesi intorno al potere dell’acquirente (buyer power). Ad esempio, un vizio delle relazioni contrattuali da sempre lamentato da parte dei fornitore è che nei contratti spesso manchi la chiarezza e la reciproca corrispettività delle prestazioni, ossia che a fronte di impegni contrattuali da parte del fornitore a pagare determinati importi di denaro, non corrispondano controprestazioni da parte degli acquirenti effettive e chiaramente definite. Interessante a questo riguardo è un recentissimo caso deciso a fine maggio dal BLE, l’autorità tedesca competente per l’applicazione dell’equivalente tedesco del D.Lgs. 198. Il BLE ha in particolare sanzionato la prassi della catena di supermercati HIT di prevedere nei loro contratti esborsi a carico dei fornitori, determinati in misura fissa o percentuale, per “servizi di assortimento” e “aperture nuovi punti vendita”, in quanto non determinati dal punto di vista della controprestazione a carico della catena e, in definitiva, senza controprestazione.
La Direttiva (UE) 2019/633
Questa Direttiva non nasce all’improvviso, ma si pone al contrario a valle di un processo ultradecennale di studi e approfondimenti da parte della Commissione UE, che hanno preso atto di diverse peculiarità della filiera agro-alimentare, tali da indurre le istituzioni comunitarie ad un approccio più prescrittivo, per la prevenzione di condotte dall’oggettivo disvalore.
È vero che la Direttiva UE prevede un sistema che rende la disciplina applicabile solo tra parti di dimensioni economiche comparabili (secondo cinque scaglioni di coppie di fatturati crescenti), fino ad escludere del tutto dal beneficio della disciplina fornitori con un fatturato superiore a 350 milioni di euro. Al di là però della farraginosità di un tale sistema, è altrettanto vero che la Direttiva all’art. 9 lascia piena libertà agli Stati membri di prevedere norme di maggior favore per i fornitori. L’Italia si è avvalsa di questa facoltà, tra l’altro proprio superando il criterio dimensionale legato al fatturato. Nessuna difficoltà interpretativa pertanto si pone a riguardo dalla frase di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. 198, che precisa come la legge si applichi “indipendentemente dal fatturato dei fornitori e degli acquirenti”. È una scelta che valorizza l’approccio, che risulta chiarissimo sin dai Considerando della Direttiva stessa, di tutela della filiera complessivamente intesa, consapevoli del fatto che eventuali abusi finiscono per risalire lungo la filiera stessa, fino a ripercuotersi sugli anelli più deboli.
In questo chiarissimo quadro, pretendere di legare la valutazione di illegittimità di talune condotte – in particolare quelle più gravi – a parametri vaghi e sfuggenti come l’imposizione o l’asimmetria del potere negoziale, significherebbe svuotare l’effettività del sistema del D.Lgs. 198.