L'Opinione

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Gian Carlo Blangiardo, 10/07/2022

"Il Paese può vincere la sfida contro le diseguaglianze, ma dovrà individuare giuste priorità di azione"


Pubblichiamo il discorso di Gian Carlo Blangiardo, Presidente Istat, tenuto alla Camera dei Deputati in occasione della presentazione del “Rapporto Annuale 2022 sulla situazione del Paese” (8 luglio 2022).

 

Dopo lo shock della pandemia, con una caduta del Pil senza precedenti dalla Seconda guerra mondiale, la ripresa è stata rapida e robusta.

Anche grazie al miglioramento delle condizioni sanitarie il Paese si apprestava a rivivere gradualmente la propria normalità.

Tuttavia se già nella seconda parte del 2021 si erano manifestati alcuni deboli segnali di tensione per l’economia, con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia si sono creati nuovi e importanti ostacoli e sono emersi numerosi elementi di incertezza sia per le imprese, sia per quei cittadini che speravano in un rapido percorso verso un futuro migliore.

Benché le misure adottate dal governo siano state, come era accaduto durante la pandemia, puntuali e mirate, la ripresa è stata messa a rischio dal sovrapporsi di diversi fattori: dal prolungarsi della guerra, alla crescente inflazione, agli effetti dei cambiamenti climatici, all’acuirsi delle diverse forme di disuguaglianza, che purtroppo rappresentano una pesante eredità del passato biennio.

A poco più di due anni dall’inizio dell’emergenza sanitaria, è possibile tracciare un accurato bilancio sulle sue conseguenze sul tessuto sociale e produttivo del nostro Paese.

Con 16 milioni di contagi e oltre 160 mila decessi associati alla diagnosi di infezione da SARS-CoV-2 tra marzo 2020 e aprile 2022, l’Italia è stata, con la Spagna, fra i paesi Ue maggiormente colpiti, soprattutto nella prima fase. Nel confronto con il quinquennio pre-pandemico 2015-2019, l’eccesso di mortalità registrato è stato particolarmente elevato nel 2020, specialmente tra la popolazione anziana e in condizione di fragilità, mentre già nel corso del 2021 l’avvio della campagna vaccinale ha avuto un impatto positivo nel contrastare la diffusione della malattia e nel ridurre la mortalità ad essa associata.

Ad aprile 2022, l’Italia, con l’80,1 per cento di vaccinati con ciclo primario, si collocava al terzo posto della graduatoria dell’Ue, dopo Portogallo e Malta. Secondo i dati raccolti da Eurobarometro, abbiamo ottenuto la qualifica di Paese con la maggiore adesione alle politiche sanitarie adottate a livello governativo.

L’emergenza sanitaria ha modificato le abitudini della popolazione, con un impatto rilevante sui vari aspetti della quotidianità: sull’organizzazione della giornata, sugli stili di vita, sul modo in cui sono state coltivate le relazioni parentali e amicali, sul tempo libero, sul lavoro. Gli stravolgimenti della vita quotidiana conseguenti al lockdown del bimestre marzo-aprile 2020 si sono attenuati nei mesi successivi e sono stati trasversali. Già nel 2021 sono emersi chiari segnali di un ritorno alla quotidianità pre-covid, sebbene alcuni cambiamenti negli stili di vita sembrano persistere e potrebbero durare nel tempo.

La pandemia ha avuto un impatto rilevante su tutte le componenti di una dinamica demografica già in fase recessiva sin dal 2014. L’eccesso di mortalità registrato nel 2020 è stato accompagnato dal dimezzamento dei matrimoni e dalla forte contrazione dei movimenti migratori. La nuzialità ha mostrato segnali di ripresa nel 2021 e, ancor più nei primi mesi del 2022, non riuscendo tuttavia a tornare ai livelli del 2019. Il calo dei matrimoni, e la conseguente diminuzione di nuovi coniugi, ha ristretto il numero di potenziali genitori, il che, in un Paese dove la natalità deriva ancora prevalentemente da coppie coniugate, lascia intendere possibili ripercussioni negative sulle nascite anche nei prossimi anni.

Durante il 2020 gli effetti negativi sulla natalità – almeno quelli riconducibili alla pandemia – si sono visti unicamente negli ultimi due mesi, in relazione alla forte caduta dei concepimenti nel bimestre marzo-aprile 2020. Il crollo della frequenza di nati si è però protratto in modo più marcato nei primi sette mesi del 2021, per poi dare segni di rallentamento verso la fine dell’anno. Tuttavia i primi dati provvisori del 2022 mostrano una nuova repentina spinta al ribasso.

Di fatto nel primo trimestre di quest’anno si contano circa diecimila nati in meno rispetto allo stesso periodo del biennio pre-pandemico 2019-2020. Tutto ciò mentre nel panorama europeo vi sono Paesi che hanno registrato incrementi di natalità particolarmente significativi, anche rispetto agli andamenti pre-pandemici.

L’ampliarsi del deficit tra nascite e decessi – già avviato da quasi un trentennio – associato alla più recente contrazione del saldo migratorio ha innescato, con continuità a partire dal 2014, una fase di calo della popolazione, accentuato dagli effetti della pandemia, che si è accompagnato a profonde trasformazioni nella sua struttura per età.

Al 1°gennaio 2022, secondo i primi dati provvisori, siamo scesi a 58 milioni 983 mila residenti: 1 milione 363 mila in meno nell’arco di 8 anni. Alla stessa data ci sono 188 persone di almeno 65 anni per ogni 100 giovani con meno di 15 anni e secondo le stime più recenti si raggiungerà il picco del 306 per cento al 1° gennaio 2059.

L’evoluzione della natalità nel tempo è fortemente condizionata, oltre che dal minor numero delle donne in età fertile e dall’intensità delle loro scelte riproduttive, anche dal “calendario” con cui tali scelte si manifestano.

Rispetto al 1995, l’età media al parto è aumentata di oltre due anni, arrivando a 32,2 nel 2020. Nello stesso periodo cresce, di oltre tre anni, l’età media materna alla nascita del primo figlio (che sale a 31,4 anni).

I nati da coppie straniere, sono aumentati ma solo fino al 2012, allorché è iniziata anche per loro una fase di costante diminuzione, tuttora in corso. Negli anni 2020 e 2021 il numero di nati stranieri è sceso sotto le 60 mila unità, segnando un ritorno ai livelli di quindici anni fa, quando però gli stranieri residenti erano la metà degli attuali.

Profondi cambiamenti sono avvenuti anche nelle forme familiari negli ultimi 20 anni. È aumentato il numero di famiglie, stimate a 25,6 milioni nel 2020-2021, ed è diminuito il numero medio di componenti, da 2,6 a 2,3, per la forte crescita delle famiglie costituite da persone che vivono da sole.

Sono diminuite le coppie con figli di più di 11 punti percentuali in 20 anni.

Nel biennio 2020-2021 le coppie in Italia ammontavano a 13,9 milioni, quasi mezzo milione in meno rispetto a venti anni fa, con un cambiamento nel peso relativo dei vari tipi di coppia. Sono in diminuzione quelle coniugate in prime nozze, mentre sono in aumento le libere unioni e le coppie ricostituite, in cui almeno uno dei due partner proviene da un precedente matrimonio.

Secondo le più recenti previsioni, all’interno di una popolazione che prosegue la sua tendenza a diminuire e a invecchiare, il numero di famiglie sembra destinato ad aumentare, raggiungendo i 26,2 milioni nel 2040, ma con un numero medio di componenti ancora in calo, da 2,3 a 2,1, e con una progressiva frammentazione. Tra il 2021 e il 2040 le coppie con figli si ridurrebbero di un quinto e parallelamente continuerebbero ad aumentare quelle senza figli.

Nei percorsi di formazione e di sviluppo delle unità familiari, si recepisce il continuo spostamento in avanti di tutte le tappe cruciali dei percorsi di vita, a cominciare dall’uscita dei giovani dalla famiglia di origine. L’Italia è da tempo tra i paesi europei dove il rinvio delle tappe di transizione allo stato adulto è più accentuato e, conseguentemente, è più alta la quota di giovani di 18-34enni che vivono con almeno un genitore, quasi sette su dieci, ben al di sopra della media europea che si ferma a uno su due.

La pandemia ha avuto un impatto rilevante anche sui flussi migratori e sulle condizioni di vita della popolazione immigrata andando talvolta ad inasprire pregresse condizioni di maggiore vulnerabilità dal punto di vista sanitario, occupazionale ed economico. L’emergenza sanitaria si è innestata in una nuova fase dell’immigrazione nel nostro Paese caratterizzata, da un lato, dalla progressiva integrazione e radicamento di buona parte della popolazione presente sul territorio, dall’altro, dall’accentuazione di alcune emergenze umanitarie che accompagnano i flussi di mobilità nel panorama internazionale.

La popolazione straniera in Italia al 1° gennaio 2022 è di 5 milioni e 194 mila residenti. In quattro anni, è aumentata di meno di 200 mila unità. Alla base del rallentamento si collocano sia la riduzione dei flussi migratori in arrivo, sia un altro aspetto divenuto rilevante nel nostro Paese: l’acquisizione della cittadinanza.

Tra il 2011 e il 2020 oltre 1 milione e 250 mila persone hanno ottenuto la cittadinanza italiana e si può stimare che al 1° gennaio 2021 i nuovi cittadini per acquisizione della cittadinanza residenti in Italia siano circa 1 milione e 600 mila.

Considerando l’insieme dei residenti con background migratorio (stranieri e italiani per acquisizione della cittadinanza), la popolazione di origine straniera ha continuato a crescere, anche se non ai ritmi del passato, raggiungendo al 1° gennaio 2021 un totale di quasi 6 milioni e 800 mila residenti.

Tra i cittadini non comunitari si è assistito a una contrazione senza precedenti dei flussi per motivi di lavoro, a una sostanziale stabilità degli ingressi per ricongiungimento familiare e a una crescita degli arrivi di persone in cerca di protezione internazionale, causati da crisi politiche e guerre in vari parti del mondo, di cui la situazione dell’Ucraina non è che l’ultimo tragico esempio.

Gli ucraini presenti nel nostro Paese prima del conflitto erano poco meno di 250 mila: la quinta collettività per numero di residenti. Si tratta in molti di casi di una presenza di lunga data che avuto impulso con la grande regolarizzazione di inizio secolo prevista dalla legge Bossi-Fini.

Nonostante la maggior parte dei profughi dall’Ucraina si dirigano verso altri paesi, la comunità radicata in Italia già prima dello scoppio del conflitto, è diventata punto di riferimento per amici e familiari in fuga dalla guerra. In base ai dati del Ministero dell’Interno, aggiornati all’11 giugno 2022, sono 132 mila le persone in fuga dal conflitto in Ucraina giunte da febbraio in Italia: 70 mila sono donne, 20 mila uomini e 42 mila minori. I dati sono tuttora in crescita.

La popolazione straniera ha una struttura giovane. I giovanissimi di origine straniera crescono numericamente e la loro presenza diviene sempre più articolata: ci sono molti nati in Italia da genitori stranieri o figli di coppie miste, accanto a coloro che sono arrivati prima del compimento dei 18 anni. Alcuni hanno cittadinanza straniera, altri quella italiana dalla nascita o per acquisizione. Molti di loro l’hanno ottenuta automaticamente per semplice trasmissione da un genitore quando è diventato italiano (ex art 14 dell’attuale legge).

Le profonde trasformazioni demografiche e sociali in atto nel Paese investono anche la popolazione anziana, delineando nuove potenzialità nelle condizioni di salute e nella qualità della vita, ma anche nuovi bisogni. I residenti con 65 anni e più sono oltre 14 milioni a inizio 2022, sono 3 milioni in più rispetto a venti anni fa; fra vent’anni saranno quasi 19 milioni. Gli anziani con almeno 80 anni oggi superano i 4,5 milioni e quelli con almeno cento anni raggiungono le 20 mila unità, essendosi quadruplicata negli ultimi 20 anni. Tra vent’anni avremo quasi 2 milioni di persone in più con almeno 80 anni, e la popolazione con almeno cento anni sarà triplicata.

Gli indicatori condivisi a livello europeo e internazionale che indagano sul livello di autonomia nello svolgere le attività essenziali della cura di sé nella vita quotidiana e quelle della vita domestica evidenziano l’elevata eterogeneità dei livelli di autonomia delle persone anziane.

Tra i “giovani anziani” di età compresa tra 65-74 anni, sette su dieci sono completamente autonomi, mentre dopo gli 85 anni tale quota crolla al 13 per cento.

In termini assoluti circa 6,4 milioni di persone non riescono a condurre una vita in piena autonomia, avendo moderate o gravi difficoltà nelle attività di cura personale o di cura della vita domestica. Ad avere una riduzione grave dell’autonomia sono 3,8 milioni. Si tratta in gran parte di donne, con un’età media di 82 anni.

La famiglia conferma il ruolo chiave nel prestare assistenza agli anziani con ridotta autonomia. Ma le trasformazioni familiari in atto lasciano aperto il dubbio sul fatto che un sistema di reti familiari sempre più indebolito possa riuscire a far fronte a una domanda di welfare che, stante la rapidità e l’intensità del processo di invecchiamento della popolazione, è da prevedere costantemente in crescita.

La pandemia COVID-19 ha scatenato una crisi economica profonda ma circoscritta nel tempo. La ripresa dell’economia mondiale è iniziata già nella seconda metà del 2020, ed è proseguita fino all’inizio di quest’anno, seppure con intensità e cadenze differenti tra principali paesi e aree geo-economiche.

Il quadro macroeconomico dell’Italia, alla metà del 2022, resta caratterizzato da una situazione moderatamente positiva, nonostante l’incertezza e i rischi al ribasso associati allo scenario internazionale.

In meno di due anni, tra la metà del 2020 e l’inizio di quest’anno, l’economia italiana ha recuperato per intero l’eccezionale caduta del Pil associata alla pandemia da COVID-19. Nel 2021, grazie a un forte dinamismo nella parte centrale dell’anno, l’economia è cresciuta del 6,6 per cento, più della media dell’area euro dopo aver subito nel 2020 una caduta maggiore.

Tuttavia a seguito del peggioramento del quadro internazionale, nella prima parte del 2022 la crescita si è molto affievolita nel nostro Paese come nel complesso della Unione europea.

In Italia, nel primo trimestre del 2022 la crescita congiunturale del Pil si è quasi azzerata pur restando in terreno positivo (+ 0,1 per cento), sostenuta dalla spesa per investimenti – che continua a mantenersi molto dinamica – e, dal lato dell’offerta, dalle costruzioni – trainate dalle agevolazioni fiscali – e dal recupero delle attività professionali e dei servizi di supporto alle imprese.

L’attività dell’industria e del commercio hanno invece segnato una battuta d’arresto, così come i consumi.

Nonostante questo rallentamento, al netto degli effetti di calendario la crescita acquisita per quest’anno è attualmente del 2,6 per cento ed è superiore rispetto a Francia e Germania (rispettivamente l’1,9 e l’1,3 per cento).

Nel primo trimestre del 2022 il PIL torna allo stesso livello della fine del 2019.

L’andamento del commercio con l’estero dal 2021 è stato positivo sia in volume che in valore, superando ampiamente i livelli pre-crisi. Tuttavia, dalla seconda parte dello scorso anno l’incremento dei prezzi delle materie prime e segnatamente dell’energia ha portato a un rapido deterioramento dei saldi commerciali divenuti negativi. In particolare, nei primi quattro mesi del 2022, rispetto allo stesso periodo del 2021, le esportazioni di beni sono cresciute del 20,7 per cento, mentre le importazioni sono aumentate di oltre il 40 per cento.

Dopo l’eccezionale crescita del deficit e del debito del 2020, che sommava gli effetti dello squilibrio di bilancio e della caduta del Pil, nel 2021 il quadro di finanza pubblica ha segnato un sostanziale miglioramento. Nonostante il disavanzo sia rimasto ancora al 7,2 per cento del Pil, il forte rimbalzo dell’attività ha consentito di ridurre il rapporto tra debito e Pil di 4,5 punti percentuali: siamo al 150,8 per cento, con un calo più ampio di quello previsto nei documenti programmatici.

Gli aumenti delle quotazioni delle materie prime – in particolare quelle energetiche – iniziati nel corso del 2021 hanno determinato una spinta senza precedenti nei costi di produzione e una fiammata inflazionistica di intensità pari a quella dei primi anni Ottanta. Le stime preliminari sull’inflazione di giugno sono di una crescita tendenziale dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo pari all’8,5 per cento in Italia, e all’8,6 per cento per l’Uem. L’invasione russa dell’Ucraina dello scorso febbraio ha provocato nuovi rialzi dei costi, aumentando anche l’incertezza geopolitica e quella sulla stabilità delle forniture energetiche.

La forte accelerazione dell’inflazione è stata finora molto concentrata nei comparti più direttamente legati alla crescita dei prezzi delle materie prime, ma va progressivamente diffondendosi.

A giugno, Il tasso di inflazione acquisito per il 2022, misurato sull’indice per l’intera collettività (NIC), è pari al 6,4 per cento ed è verosimile che le spinte sui costi alimentino ulteriormente il processo, anche se le tensioni sulle quotazioni internazionali si dovessero allentare.

In particolare, i prezzi di petrolio e gas naturale, nei primi mesi del 2022, si sono attestati, rispettivamente, a 1,6 e 6,8 volte il livello medio del 2019. Anche quelli delle materie prime agricole hanno registrato una forte crescita: il prezzo del grano è quasi raddoppiato rispetto al periodo precedente la pandemia, quello dei fertilizzanti è 3,1 volte superiore. Nello stesso periodo, rispetto alla media del 2019, il prezzo dell’energia elettrica è aumentato fino a oltre l’80 per cento, il gas di quasi il 54 per cento e i beni alimentari costano attualmente il 9 per cento in più.

L’Italia presenta un livello di dipendenza dalle forniture estere di prodotti energetici più elevato dei principali partner europei, pari a circa i tre quarti del fabbisogno. Anche il comparto agro-alimentare, che da solo rappresenta circa il 10 per cento dell’export, dipende per più di un quinto da input produttivi di origine estera. In questo contesto, il rialzo delle quotazioni delle materie prime energetiche e agricole ha generato un aumento dei prezzi di produzione che dai settori direttamente colpiti si è trasmesso al resto del sistema produttivo, trasferendosi infine sull’inflazione al consumo.

Nel 2021, l’indice dei prezzi al consumo ha superato di oltre un punto percentuale le retribuzioni contrattuali erodendo i guadagni di entità analoga realizzati nel 2020. Nei primi mesi del 2022 le retribuzioni hanno continuato a crescere ma in misura molto moderata; anche se si ritiene che possano riprendere vivacità nella seconda parte dell’anno, alla luce dei rinnovi in corso, per i quali il riferimento è la previsione del tasso di crescita dell’indice dei prezzi al consumo al netto dei prodotti energetici IPCA-NEI, stimata, a inizio giugno, al +4,7 per cento per il 2022.

La ripresa non è stata uniforme tra i settori produttivi. Nell’industria, e in particolare nelle costruzioni, l’attività è ampiamente sopra i livelli precedenti la crisi, ed è risultata molto dinamica anche in comparazione con le altre maggiori economie europee. Nonostante la flessione della produzione industriale a maggio, diffusa poco fa, il dato degli ultimi tre mesi segna una crescita del 2,3 per cento. Nei servizi, invece, la situazione è fortemente diversificata, in ragione dell’impatto delle misure di contenimento dei rischi di contagio che, fino a pochi mesi orsono, hanno limitato alcune attività. In particolare, nell’aggregato dei servizi ricreativi e alla persona, in termini reali il livello del valore aggiunto nel primo trimestre del 2022 era ancora inferiore di oltre 10 punti percentuali rispetto alla fine del 2019.

Particolarmente critica la situazione dell’agricoltura, il cui valore aggiunto è sceso sia nel 2020 che nel 2021. Agli effetti negativi sul comparto, dovuti agli strascichi della crisi sanitaria e allo shock bellico, nel 2022 si è aggiunta l’emergenza climatica.

La carenza di risorse idriche sta colpendo in maniera particolare le regioni settentrionali nel bacino del Po anche a causa delle perdite degli acquedotti che nei capoluoghi di provincia è pari al 36,2 per cento dell’acqua immessa in rete. Il PNRR ha destinato 4,38 miliardi per garantire la gestione sostenibile del ciclo delle risorse idriche evitando sprechi e per il miglioramento della qualità ambientale delle acque marine e interne. Un investimento fondamentale per avviare gli interventi più urgenti. Il fatto tuttavia che l’agricoltura assorba circa la metà degli utilizzi delle risorse idriche del Paese rende però necessario strutturare un piano più ampio di azione.

L’Italia si posiziona fra i paesi UE dove più marcata è stata la riduzione degli occupati tra il 2019 e il 2020, con l’ulteriore aumento del divario del nostro Paese, rispetto alla media Ue, su tutti i principali indicatori del mercato del lavoro.

Dopo i primi mesi del 2021 la situazione è progressivamente migliorata. La crescita dell’occupazione, anche se meno ampia rispetto alle altre maggiori economie europee, ha permesso di recuperare quasi pienamente, in termini di numero di occupati, i livelli pre-crisi.

Il tasso di occupazione, a marzo 2022 ha segnato il valore più elevato da quando è disponibile la serie storica (gennaio 2004) e nei mesi successivi, in concomitanza con la lieve riduzione della dinamica occupazionale, è rimasto comunque prossimo ai valori record registrati nei mesi precedenti.

Il recupero ha riguardato tutte le categorie di occupati, anche se è stato guidato dall’occupazione dipendente a tempo determinato, che era stata colpita più intensamente nella fase recessiva associata alla pandemia.

Una delle caratteristiche peculiari dell’impatto della pandemia sul mercato del lavoro italiano nel 2020 è stato il costo particolarmente alto pagato dall’occupazione femminile e dai giovani, duramente colpiti dagli effetti recessivi dell’emergenza sanitaria a causa della maggiore vulnerabilità del tipo di lavori svolti. Va però detto che i notevoli progressi osservati nel 2021 e nei primi mesi del 2022 hanno consentito il recupero e il superamento dei livelli occupazionali pre-pandemici anche per i giovani da 25 a 34 anni.

L’occupazione per titolo di studio conferma, anche per il biennio pandemico 2020-21, il ruolo protettivo dell’istruzione nel ridurre i rischi di perdita del lavoro e nell’agevolarne la ricerca di uno nuovo durante le successive fasi di ripresa.

Nel 2020, il tasso di occupazione dei laureati si è ridotto meno della metà rispetto ai possessori di un diploma secondario superiore. I benefici occupazionali di un titolo di studio più elevato appaiono particolarmente forti per le donne, per le quali nel 2021 il possesso di una laurea si è associato a un tasso di occupazione di oltre 20 punti percentuali (10 punti per gli uomini) superiore rispetto a chi non è andato oltre il diploma secondario superiore.

Il lavoro tradizionalmente definito come standard, cioè quello individuato nei dipendenti a tempo indeterminato e negli autonomi con dipendenti, entrambi con orario a tempo pieno, è in diminuzione. Nel 2021, queste modalità di lavoro riguardano 6 occupati su 10.

Diminuisce il lavoro indipendente, che rappresenta un quinto degli occupati, per effetto del calo degli imprenditori, dei lavoratori in proprio (agricoltori, artigiani, commercianti), dei coadiuvanti e dei collaboratori. Aumenta il lavoro dipendente a tempo determinato soprattutto con contratti di breve durata. Quasi la metà dei dipendenti a termine ha un’occupazione di durata pari o inferiore ai 6 mesi. Negli anni è aumentata anche l’occupazione part-time, che nel 2021 riguarda quasi un quinto degli occupati e nella maggioranza dei casi è involontario. Ed è proprio questa la forma di part time che ha mostrato la crescita più consistente.

Va ancora sottolineato come la diffusione di forme di lavoro non-standard abbia contribuito a un peggioramento della qualità complessiva dell’occupazione, comportando anche livelli retributivi mediamente più bassi.

Le modalità di partecipazione, o non partecipazione, al mercato del lavoro sono tra le determinanti più significative della condizione di povertà. La povertà assoluta, nell’ultimo decennio, è progressivamente aumentata e, nel biennio 2020-2021, ha raggiunto i valori più elevati dal 2005, coinvolgendo oltre cinque milioni e mezzo di persone.

Anche la connotazione delle famiglie in povertà assoluta è progressivamente cambiata. L’incidenza è diminuita tra gli anziani soli, è rimasta sostanzialmente stabile tra le coppie di anziani ed è fortemente cresciuta tra le coppie con figli, tra i nuclei monogenitori e tra le famiglie di altra tipologia.

Il fenomeno ha inoltre progressivamente coinvolto sempre più famiglie di occupati, mentre si conferma e si amplia nel tempo la stratificazione della povertà per area geografica, età e cittadinanza ed è molto aumentata la povertà dei minori e dei giovani.

Le misure di sostegno economico erogate nel 2020, in particolare reddito di cittadinanza e di emergenza, hanno permesso a 1 milione di individui di non trovarsi in condizione di povertà assoluta. L’effetto è stato maggiore per il Mezzogiorno, per le famiglie con a capo un disoccupato, per le famiglie di stranieri, per le coppie con figli e i nuclei monogenitore.

L’accelerazione inflazionistica che ha caratterizzato la seconda metà del 2021 e i primi cinque mesi del 2022 rischia di aumentare le disuguaglianze, sia per la diminuzione del potere d’acquisto, particolarmente marcata proprio tra le famiglie con forti vincoli di bilancio, sia per effetto delle tempistiche dei rinnovi contrattuali, più lunghe in settori caratterizzati da bassi livelli retributivi.

La crisi sanitaria e la successiva fase di ripresa economica hanno avuto un impatto differenziato non solo sui lavoratori ma anche sulle imprese. Con riferimento a queste ultime, nonostante un quadro complessivo di relativa solidità, emergono andamenti eterogenei all’interno del sistema.

Le maggiori difficoltà nel processo di recupero sono state sperimentate dalle imprese di piccole dimensioni e nei settori dei servizi maggiormente colpiti dalle misure di contenimento associate alla pandemia, come le attività del turismo e della ristorazione, o l’aggregato dei servizi ricreativi e alla persona. Al contrario, le imprese medie e grandi e quelle attive in settori quali l’industria e i servizi ICT hanno risentito meno della crisi e beneficiato in misura maggiore degli stimoli per la ripresa.

I dati di tipo microeconomico corroborano questa differenziazione. Se a novembre del 2020 quasi un terzo delle imprese considerava la propria attività “a serio rischio operativo” (riteneva cioè probabile la chiusura dell’attività nell’arco di un semestre), già un anno dopo tale quota si era ridotta al 3,4 per cento. L’incidenza resta assai più elevata per le attività maggiormente colpite dalle conseguenze della pandemia: a fine 2021 dichiarava di essere a rischio più di un’impresa su dieci nell’aggregato dei servizi ricreativi (es. cinema, teatri, discoteche, circoli sportivi) e, se si considera una definizione più ampia inclusiva di chi si ritiene almeno “parzialmente” in pericolo, erano a rischio circa un’impresa su tre in questo comparto e in quello degli alloggi e ristorazione.

Una interessante peculiarità della fase recessiva legata alla pandemia è stata il forte stimolo alla diffusione delle tecnologie digitali e all’investimento in capitale umano, che ha portato il sistema delle imprese a recuperare alcuni ritardi strutturali e a sperimentare nuovi modelli organizzativi.

La crisi sanitaria ha fatto emergere criticità del sistema paese presenti da tempo e ha reso necessario velocizzare alcuni processi quali la transizione green, ma anche la modernizzazione della Pubblica amministrazione italiana: obiettivo importante e particolarmente sfidante del PNRR.

Si prevede un complesso sistema di interventi orientati a una maggiore digitalizzazione della PA, a sviluppare percorsi di semplificazione e una profonda innovazione dei processi organizzativi e delle politiche relative al pubblico impiego, finalizzate a migliorare la PA, attraverso nuove assunzioni e iniziative di formazione del capitale umano.

La riforma si innesta in un quadro che presenta numerosi ostacoli, primo fra tutti il numero e le caratteristiche socio-demografiche dei dipendenti pubblici.

Infatti, a seguito delle politiche di blocco delle assunzioni e delle riforme pensionistiche, l’occupazione nel settore pubblico, oltre che ridursi di circa 200 mila unità negli ultimi vent’anni, ha sperimentato anche un sensibile invecchiamento. Al 2019, tra i Paesi Ue per i quali sono disponibili informazioni comparabili, l’Italia risultava avere l’incidenza più bassa di dipendenti pubblici rispetto alla popolazione (5,6 per cento abitanti, rispetto ai 5,8 della Germania) e, al contempo, essere tra quelli che avevano maggiormente ridotto la consistenza del personale in servizio nella Pubblica Amministrazione. Inoltre, nel settore pubblico italiano si riscontrava la maggiore incidenza di lavoratori con oltre 55 anni e la più bassa di quelli con meno di 35 anni. L’età media si è incrementata di oltre 6 anni nell’ultimo decennio, attestandosi a 49,9 anni contro i 42,4 del settore privato.

Il livello generale del capitale umano del pubblico impiego è relativamente elevato, seppure con un forte grado di eterogeneità fra i diversi comparti. Il 42,5 per cento dei dipendenti pubblici ha un titolo di studio universitario, mostrando un differenziale importante rispetto al settore privato, dove l’incidenza si ferma al 18 per cento. Tuttavia, l’attrattività salariale del pubblico impiego, in particolare per il personale qualificato, potrebbe in alcuni casi rappresentare un elemento di freno per il piano di assunzioni di personale con competenze di alto livello, previsto dalla modernizzazione.

La pandemia ha rappresentato un importante fattore di accelerazione del processo di digitalizzazione, soprattutto per la fornitura di servizi di e-government e per la diffusione del lavoro agile, con velocità e intensità eterogenee tra i diversi comparti del settore pubblico.

L’accesso ai servizi digitali da parte dei cittadini ha sperimentato un vistoso incremento: le amministrazioni che hanno adottato lo SPID sono triplicate fra il 2019 e oggi, mentre le utenze individuali sono passate da 6 a 30 milioni fra il 2020 e il 2022. Al termine della fase emergenziale un’amministrazione pubblica su cinque considerava di introdurre in maniera strutturale il lavoro agile, circa sette su dieci fra quelle di maggiori dimensioni. I risultati sono incoraggianti, seppure permangano delle criticità. L’efficienza dei processi è stata generalmente salvaguardata e l’impatto sulla qualità del lavoro è risultata soddisfacente; molte amministrazioni, tuttavia, hanno evidenziato la necessità di nuove competenze digitali e di un miglioramento delle dotazioni tecnologiche.

Lo scorso anno nel chiudere la presentazione del ventinovesimo Rapporto sottolineavo come l’Istat avesse dovuto confrontarsi con un compito arduo: disegnare il quadro di un paese scosso da un’emergenza imprevedibile che ha investito le vite, i rapporti sociali, l’economia, all’interno di uno scenario di crisi globale.

Il Rapporto di quest’anno viene presentato in un contesto profondamente mutato per quanto riguarda la crisi pandemica, ma messo a dura prova da un nuovo evento drammatico.

La guerra in corso, con tutte le sue conseguenze economiche e sociali, rischia infatti di indebolire il recupero economico del Paese e di accentuare al suo interno le disuguaglianze, già elevate.

Il trentesimo Rapporto Annuale dell’Istat mostra un sistema paese caratterizzato da un elevato livello di complessità; una realtà che va affrontata con una strategia di risposta multidimensionale e a geometrie variabili. Affiancata da strumenti di valutazione e monitoraggio, efficienti ed efficaci.

La crescita delle disuguaglianze impone di costruire nuovi sistemi di misurazione che tengano conto delle specificità dei differenti soggetti sociali e delle forme del disagio che stanno emergendo. In questi ambiti Istat è in grado di svolgere il ruolo di catalizzatore, mettendo a disposizione conoscenze e alte professionalità per definire quadri informativi e analisi utili all’intero Paese.

Il PNRR ha lanciato grandi sfide: la transizione digitale, quella ecologica, il grande investimento in infrastrutture. A ciò va aggiunto la imponente sfida della riforma e della modernizzazione della PA. Il Paese ha dimostrato di essere unito nei confronti della risposta alla pandemia. Lo è stato anche nella risposta all’impatto sociale ed economico della crisi. Ancor più dovremo esserlo ora. Ognuno ha fatto la sua parte. E così dovrà accadere anche in futuro. L’Istat farà la sua parte, impegnandosi a fornire statistiche affidabili e aggiornate sempre più al passo con il crescente bisogno di una conoscenza che aiuti a comprendere e a governare i grandi cambiamenti che ci attendono: sul fronte dell’economia, della società, della popolazione e dell’ambiente in cui tutti noi viviamo e interagiamo.

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