L'Opinione

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Stefano Previti , 08/10/2019

La Corte di Giustizia UE si esprime sui contenuti illeciti presenti su Facebook


Con la recente sentenza del 3 ottobre 2019, pronunciata nella causa C-18/18, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) amplia significativamente i confini della tutela in tema di difesa dell’immagine e della reputazione on line, agendo – con considerazioni peraltro estensibili anche a diversi ambiti – sui principi riguardanti la responsabilità degli intermediari, primi fra tutti gli hosting provider.
La sentenza, infatti, incide in primis sulle norme contenute all’interno della Direttiva 2000/31/CE (cosiddetta “direttiva sul commercio elettronico”), relative alla responsabilità e agli obblighi di sorveglianza dei prestatori di servizi, per i contenuti illeciti pubblicati sulle loro piattaforme telematiche.
In particolare, secondo la CGUE, non violerebbe la suddetta Direttiva un ordine giudiziale rivolto nei confronti del prestatore di servizi di hosting, affinché – a livello mondiale – rimuova o blocchi l’accesso ad informazioni memorizzate, il cui contenuto sia identico, ovvero equivalente a quello di un’informazione già dichiarata illecita, qualunque sia l’autore della richiesta di memorizzazione delle medesime.
La decisione è, a mio avviso, particolarmente interessante, poiché apre la strada ad ordini inibitori attraverso i quali obbligare l’operatore a ricercare e rimuovere tutti i contenuti “identici” a quello qualificato illecito, nonché tutti i contenuti “equivalenti”, che riproducano nella sostanza il contenuto qualificato illecito, chiunque ne sia l’autore.
Quanto al concetto di “equivalenza” delle informazioni illecite, la CGUE chiarisce che “l’illiceità del contenuto di un’informazione non è di per sé il risultato dell’uso di alcuni termini, combinati in un certo modo, ma del fatto che il messaggio veicolato da tale contenuto è qualificato come illecito, trattandosi, come nel caso di specie, di dichiarazioni diffamatorie aventi ad oggetto una determinata persona”.
Ne consegue che, affinché un’ingiunzione volta a far cessare un atto illecito e ad impedire il suo reiterarsi possa garantire tutela effettiva per il danneggiato, “deve potersi estendere alle informazioni il cui contenuto, pur veicolando sostanzialmente lo stesso messaggio, sia formulato in modo leggermente diverso, a causa delle parole utilizzate o della loro combinazione, rispetto all’informazione il cui contenuto sia stato dichiarato illecito”.
A tal fine, l’ordine inibitorio deve contenere “elementi specifici debitamente individuati dall’autore dell’ingiunzione, quali il nome della persona interessata dalla violazione precedentemente accertata, le circostanze in cui è stata accertata tale violazione nonché un contenuto equivalente a quello dichiarato illecito”, con la ulteriore precisazione che “le differenze nella formulazione di tale contenuto equivalente rispetto a quella che caratterizza l’informazione precedentemente dichiarata illecita” non devono essere “tali da costringere il prestatore di servizi di hosting ad effettuare una valutazione autonoma di tale contenuto”, ma, al contrario, dovrebbero essere tali da consentire all’intermediario di rintracciarli tramite “tecniche e mezzi di ricerca automatizzati”.
I riflessi, da un punto di vista pratico, appaiono altrettanto rilevanti, in quanto tale decisione sembra consentire ai soggetti interessati da illeciti diffamatori – e, quindi, anche alle aziende coinvolte in attacchi denigratori sul web – non solo di poter ottenere ingiunzioni di ampia portata sotto il profilo oggettivo (con le quali costringere l’hosting provider a rimuovere contenuti identici o equivalenti a quello specificamente censurato, già presenti sulla propria piattaforma a livello mondiale, caricati anche da soggetti diversi), ma anche rivolte al futuro, potendosi ottenere ordini aventi la stessa portata volti ad impedire il successivo caricamento di contenuti identici o equivalenti a quelli di cui sia stata accertata la diffamatorietà; con il vantaggio, quindi, di non costringere il danneggiato a ricorrere alla tutela giudiziaria ogni volta che viene pubblicato un contenuto sostanzialmente equivalente a quello già censurato.

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